Come ogni anno arriva il Rapporto Censis. Me ne occupo da tempo e, ormai da pensionato, leggo i numeri col bisogno di sufficienti diottrie, nel senso che alla fine della fiera è complicato dire dove abita e che fa il “signor“ ceto medio, posto al centro della scena delle statistiche. Potrei sembrare irrispettoso dei sociologi dell’esimio centro di ricerca sociale, tra i più noti e apprezzati d’Italia, ma voleva essere una battuta per evidenziare che occorre un certo esercizio di immedesimazione nelle categorie prese in esame dal Rapporto per poi sentirsi in qualche modo presi in giusta considerazione.
Allora, la prima notizia, che è un grande pugno nella pancia sociale, è sapere che il signor ceto medio, in Italia, vive in uno stato febbrile: nella stagnazione, in una condizione di grave affanno o, peggio ancora, rischia di perdere lo status socio-economico faticosamente conquistato nel tempo. E lì ci starebbe bene una bella esclamazione educata come “capperi“!
E poi aggiungo che, rovistando sempre nei numeri statistici, sembra che la sanità sia in crisi per le troppe liste d’attesa, che causano anche un certo calo di cure che invece dovrebbero essere prese in carico. Quindi, se questo è vero, il signor ceto medio, se ha uno stato febbrile, si curerà. Ci auguriamo di sì.
Ma, uscendo dal tono scherzoso e facendoci molto seri, si scopre che all’inizio del 2025 il 60% della ricchezza nazionale è posseduta da 2,6 milioni di famiglie appartenenti al decimo decile. Di più: il 48% della ricchezza è in mano a 1,3 milioni di famiglie, che costituiscono il 5% delle famiglie più abbienti. La forbice della ricchezza taglia nettamente il Paese in due, se non in tre, dove pochi hanno molto, molti hanno poco e 5,7 milioni di italiani non hanno quasi niente. E si sa: le forbici sono pericolose da usare.
Negli ultimi anni l’inflazione ha condizionato pesantemente i comportamenti di consumo delle famiglie italiane, e credo che tanti, tornando dal supermercato, se ne siano resi conto. Anche nell’ambito dell’abbigliamento la forbice tra spesa e acquisto mantiene un’ampia differenza, nonostante l’Italia sia il Paese della moda.
Ed ora parliamo difficile. Il grande debito inaugura il nuovo secolo delle società post-welfare. La crescita vertiginosa dell’indebitamento delle economie avanzate le rende fatalmente più fragili e vulnerabili. Tra il 2001 e il 2024, nei Paesi del G7, a fronte di una stentata crescita dell’economia, il debito pubblico è lievitato dal 75,1% al 124,0% del Pil. In Italia dal 108,5% al 134,9%, in Francia dal 59,3% al 113,1%, nel Regno Unito dal 35,0% al 101,2%, negli Stati Uniti dal 53,5% al 122,3%. Ci sarebbe da stare contenti perché non siamo più l’unico malato d’Europa. Ma evitiamo di contagiarci di nuovo.
Comunque, qualunque posto occupiamo in classifica, l’ingente debito e la bassa crescita, legata all’invecchiamento demografico e alla riduzione della popolazione attiva, congiurano per un inevitabile ridimensionamento del welfare.
Colpisce che sono diminuite le spese per la cultura, che è una nota molto stonata del concerto Italia. Insomma, le notizie sono un po’ deboli e il Censis, caparbiamente, lo dice da anni. A noi la possibilità di smentirlo.