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Cultura > Itinerari letterari

Cercatori alla ventura

di Oreste Paliotti

- Fonte: Città Nuova

Due bestseller di epoca diversa esplorano inquietudini e illusioni dell’animo umano inappagato

Un cercatore d’oro (foto Pixabay – Wadams)

Secondo il genere letterario delle “robinsonate”, così detto dal celebre romanzo di Daniel Defoe Robinson Crusoe (1719), il cui successo straordinario ispirò le più svariate imitazioni, uno o più personaggi segregati dal mondo civile, di solito su di un’isola disabitata, devono industriarsi a sopravvivere con forze e mezzi limitati. Appartiene ad esso, edito da Bibliotheka, I Robinson d’America. Le avventure di una famiglia persa nel gran deserto del West. Pubblicata per la prima volta nel 1853 a Filadelfia, la storia dei Duncan, approdati nel Nuovo Continente per rifarsi una esistenza in un mondo ancora vergine, eguagliò in popolarità il capolavoro di Defoe, vendendo nel corso degli anni milioni di copie.

Questo viaggio avventuroso costellato di pericoli attraverso foreste e praterie di smagliante bellezza, nonché di deserti facili a rivelarsi trappole mortali, oltre a rinverdire il mito della conquista del West creato da James Fenimore Cooper, è una scoperta dell’affascinante mondo degli indiani d’America proposta dall’autore David W. Belisle (1827-1890), poeta, giornalista e sindaco di Atlantic City dal 1886 al 1867.  A rendere avvincente l’opera è l’amalgama di elementi realistici, grazie alla perfetta competenza di flora e fauna da parte dello scrittore, ad altri più fantasiosi: come quando i nostri personaggi si imbattono nelle tracce maestose di qualche civiltà antichissima ed estinta, precedente l’arrivo dei pellerossa. Naturalmente il lettore dovrà calarsi nella mentalità dell’epoca in cui fu scritto il romanzo e non meravigliarsi se troverà definiti come “selvaggi” quelli che oggi sono più correttamente chiamati “nativi americani”. Del resto, proprio uno di loro – Turbine, un capo pellerossa che aiuta i pionieri nelle loro peripezie – risulta il personaggio più simpatico.

Se I Robinson d’America è avventura pura, piacevolissima da leggere, Il tesoro della Sierra Madre ora in edizione integrale per i tipi di WoM secondo titolo di cui si occupa questo itinerario – più che da classificare nello stesso genere letterario, è una parabola sulla devastazione che l’oro può provocare nell’animo umano, di cui rivela fragilità e miserie.

Siamo nel Messico degli anni 20 del secolo scorso. Tre gringos che vivono di espedienti si associano per andare alla ricerca del fatale metallo. Howard, il più vecchio ed esperto, mette in guardia gli altri due, Dobbs e Curtin: «Potete accumulare tanto oro da non sapere come trasportarlo; ma scommetteteci il paradiso, più ne avrete, più ne vorrete. È come alla roulette: un giro ancora; un giro ancora. E avanti così. Non si distingue più l’onestà dalla disonestà, il buono dal cattivo: ogni discernimento è perduto. È così».

Dopo molto peregrinare sull’arida Sierra Madre i tre si imbattono in un giacimento che iniziano a sfruttare. Ma il lavoro bestiale e l’assenza di ogni comfort inaspriscono gli animi: di qui, violente liti all’ordine del giorno. L’oro, inizialmente miraggio di libertà e benessere, in chi non conosce il Vangelo dell’amore si trasforma in febbre divorante, in una malattia dell’anima che chiude la porta a rapporti amichevoli, dando origine ad una spirale di violenza che trascina in abissi di disumanità. La situazione cambia con l’aggiungersi al gruppetto di un geologo: Laucad detto Laky.

Poco dopo il suo arrivo, il campo dei cercatori viene assaltato una banda che mesi prima ha massacrato, per depredarli, i passeggeri di un treno insieme alla scorta militare. Per i quattro sarebbe la fine senza l’arrivo provvidenziale di un drappello di soldati che mette in fuga gli aggressori. Ancora mesi di estenuante lavoro, poi Howard, Dobbs e Curtin, soddisfatti del tesoro raccolto, decidono di raggiungere la costa per metterlo al sicuro in una banca. Lacaud, invece, si separa dal terzetto: continuerà per conto suo le ricerche di un filone più ricco.

Gli altri partono, avendo occultato tra pelli d’animale in groppa ai loro asini i sacchetti contenenti la sabbia aurifera: un trucco per fingersi cacciatori, qualora dovessero imbattersi in ladri. Ma lungo il viaggio, per aver salvato la vita al figlio di un capo villaggio, Howard è trattenuto suo ospite per qualche tempo, non senza però aver affidato ai soci la propria parte per depositarla in banca.

Ormai soli e senza chi faccia da paciere, i due rimasti litigano senza freni, fino al tragico epilogo: Dobbs spara a Curtin per impossessarsi del suo oro e, credendolo morto, lo abbandona in un bosco. Finirà ucciso a sua volta da alcuni balordi e depredato di vestiti, armi e bagagli. Gli assassini però, incapaci di riconoscere nel buio la sabbia aurifera, svuotano i sacchetti sul terreno e trattengono il resto. Anche loro finiranno male: riconosciuti come ladri e omicidi da una pattuglia di soldati, verranno giustiziati. Fin qui la rossa scia di sangue che ha segnato questa storia.

Quanto a Howard, che nel villaggio e nel circondario si è fatto fama di medico miracoloso, a sorpresa viene raggiunto da Curtin, sopravvissuto al colpo di pistola. Con la perdita dell’oro, frutto di tanti sacrifici e sofferenze, ai due gringos non resta che accettare l’ospitalità degli indios. Riusciranno a non lasciare l’atmosfera sana del villaggio, di nuovo presi dalla febbre dell’oro?

Traven, il misterioso autore di questo classico del 1927 (la sua vera identità si è palesata solo dopo la morte nel 1969) ha inserito nella vicenda principale altri episodi di violenza con protagonista sempre quell’oro che occupa i sogni degli uomini e, promettendo un futuro di agi, intanto li schiavizza, toglie loro la pace, li aizza gli uni contro gli altri. Traven poi non risparmia critiche nei confronti della Chiesa cattolica, che non seppe frenare l’avidità dei conquistadores spagnoli e a sua volta si macchiò, in qualche suo membro, delle medesime colpe nei confronti delle popolazioni indigene.

Eppure il severo monito contro la brama umana rappresentato da questa cruda vicenda riserva, in mezzo a deserti spirituali, squarci di umanità: è stato un indio, infatti, novello samaritano, a ritrovare Curtin ferito e a prendersene cura fino a ricondurlo in salvo da Howard. E ancora indios si sono distinti dai gringos per lealtà, generosità e fede ingenua nel Dio dei cristiani. Questa visione positiva dovuta alla lunga permanenza di Traven in Messico gli ha ispirato altri romanzi ambientati fra quelle popolazioni primitive, come Il ponte nella giungla.

Di grande forza narrativa col suo stile asciutto e incisivo, che la nuova traduzione restituisce in tutta la tensione dell’originale, Il tesoro della Sierra Madre è stato accostato al capolavoro di Dumas Il conte di Montecristo, dove pure il ritrovamento di un tesoro dà al protagonista, ingiustamente condannato alla galera, l’amara soddisfazione di poter attuare tutte le sue vendette.

 

 

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