«Nel corso degli ultimi secoli abbiamo scavato, tagliato, bruciato, trivellato, pompato, estirpato […], aggiungendo 2.400 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’atmosfera terrestre», l’equivalente della quantità di CO2 prodotta da 522 miliardi di automobili in un anno. Come se ognuno degli abitanti della Terra possedesse circa 65 automobili. Questo dato disarmante è riportato dal National Geographic (11/2023), nel reportage di Sam Howe Verhovek, con meravigliose fotografie di Davide Monteleone.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC), non basterà azzerare le nostre emissioni entro la metà del secolo per bloccare gli enormi danni ambientali dovuti all’innalzamento della temperatura globale. Dobbiamo cominciare a estrarre significative quantità di CO2 dall’atmosfera, fino a 12 miliardi di tonnellate all’anno da qui al 2050, e rispedirla lì dove l’abbiamo depredata: nel sottosuolo o nei fondali marini. Siamo lontanissimi da questo obiettivo.
Ricercatori e industrie sono impegnati nello sviluppo di interessanti tecnologie. In una valle a 30 kilometri da Reykjavík, un paesaggio quasi lunare e primitivo dell’Islanda, Edda Aradóttir – esperta di ingegneria dei giacimenti, nonché direttrice generale dell’azienda Carbfix – vuole rimettere la CO2 dove si trovava prima. In un igloo di alluminio l’anidride carbonica viene catturata, mescolata all’acqua, quindi disciolta e immersa in condutture che raggiungono i 750 metri di profondità. Lì incontra il basalto poroso, si mineralizza e si trasforma in roccia. Un’idea rivoluzionaria, in grado di tra- sformare solo quantità minuscole di CO2.
L’inventore uruguaiano Aldo Steinfeld, specializzato in sistemi energetici sostenibili, ha prodotto combustibile solo con la luce del sole e la CO2 sul tetto del campus dell’ETH, il politecnico di Zurigo. Un’alternativa sostenibile a carburanti come cherosene, diesel e benzina.
I metodi di cattura di CO2 sono numerosi, e non si limitano a sfruttare il suolo, ma anche il mare. È il caso di Pia Winberg, ecologa dei sistemi marini che, sul litorale del nuovo Galles del sud, sperimenta con la sua azienda PhycoHealth soluzioni a base di alghe, che hanno una straordinaria capacità di assorbire CO2, fino a 40 volte superiore a quella degli alberi. L’idea di costruire giganteschi orti acquatici di kelp e wakame in mezzo all’oceano è immaginifica, necessita cautela, ma non è da sottovalutare.
Alcune criticità: più di 500 gruppi ambientalisti hanno firmato una petizione che invita le autorità statunitensi e canadesi ad «abbandonare il mito sporco e pericoloso del CCS», la cattura e stoccaggio di CO2 (Carbon Capture and Storage), «pericoloso diversivo, alimentato dagli stessi grandi inquinatori responsabili dell’emergenza climatica».
Cosa significa? I giganti del petrolio, più di tutti responsabili della tragedia in corso, sono interessati ad entrare nel business della cattura di CO2, per trarne profitti. Le grandi industrie inquinanti, investendo in questi sistemi, farebbero una sorta di Greenwashing, una strategia per costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sull’impatto ambientale.
Eppure, sviluppare tecnologie per raccogliere CO2 ha un prezzo. Gli investimenti di grosse industrie potrebbero essere fondamentali. Soprattutto perché proprio queste grandi corporate sono ansiose di acquistare compensazioni verificate per raggiungere la neutralità carbonica, se non addirittura superare il loro impatto ambientale negativo.
Per chiarire: quando un’importante compagnia aerea dichiara che diventerà carbon neutral entro il 2030, non intende in alcun modo che i motori dei suoi velivoli smetteranno magicamente di emettere CO2. In realtà, pagherà delle quote per far assorbire la CO2 che produce.
Anche i singoli potrebbero pagare piccole quote per le proprie emissioni in eccesso, in modo che i costi della loro rimozione artificiale possano essere coperti. Così si eviterebbe l’azzardo morale: continuare ad adottare comportamenti rischiosi pensando che non se ne pagheranno le conseguenze.
Un approccio integrato, quello in cui molti governi del mondo falliscono, potrebbe essere la strada giusta verso la salvezza dell’ecosistema.