La famiglia secondo Muccino

Un titolo sarcastico e amaro per il film A casa tutti bene, dato che tutti i personaggi non rappresentano nulla di buono del loro nucleo familiare. Un film che può sembrare la realtà, ma che mostra solo una parte della società, forse solo quella che conosce Muccino. Ancora nelle sale
Il regista Gabriele Muccino

Si esce disturbati, angosciati, rattristati dalla proiezione dell’ultimo film di Gabriele Muccino: A casa tutti bene, dove il titolo è sarcastico, amaro, visto che nessuno dei 20 personaggi che soffrono nella pellicola si tiene in equilibrio, né annusa, neppure minimamente, la felicità. È un film che fa a pezzi la famiglia, che ne sancisce la bruttezza, l’inutilità, che non individua in lei nulla di buono. Tu spettatore cerchi di essere onesto e ti chiedi se il tuo stato d’animo possa dipendere dal fatto che il film ha fatto centro: «Non è che stai così – ti domandi − perché in quel disgraziato coro urlante ci sono un tuo parente, le dinamiche della tua imperfettissima famiglia o peggio ancora tu stesso? Non è che questo ti brucia e allora timbri il film come inverosimile?».

Sarebbe facile archiviare A casa tutti bene come un film poco lucido e preciso sulla famiglia solo perché i personaggi di Muccino sono sempre così isterici e sopra le righe, insopportabilmente nevrotici e ansiosi, con le loro relazioni amorose eccessivamente drammatizzate. Basterebbe intonare il solito ritornello: Muccino sa girare, ma funziona meglio quando mette in scena sceneggiature non sue. Non ti va, però, di liquidare il film disonestamente, con troppa fretta, anche se ha personaggi pienamente mucciniani e con limiti strutturali vistosi. Non importa, preferisci partire dalle parti realistiche della storia, che pure ci sono, e da lì concludere che questo racconto sulla famiglia è parziale, personale, e dice quello che una famiglia può diventare, in negativo, e non cosa la famiglia in assoluto è.

Photocall of ''A casa tutti bene'' in Rome

La storia è ambientata su un’isola, che è Ischia, anche se non viene mai specificato, e una coppia di pensionati (Ivano Marescotti e Stefania Sandrelli) ha organizzato un pranzo per festeggiare le proprie nozze d’oro. Hanno invitato i loro tre figli ormai sposati, e a loro volta genitori: una femmina (Sabrina Impacciatore) che accetta, quasi rimuovendolo, il fatto che il marito (Giampaolo Morelli) la tradisca, e due maschi separati (Favino e Accorsi), uno venuto da solo (visto che suo figlio non gli parla) e l’altro con due mogli al seguito; la prima (Valeria Solarino) perché rimasta nel cuore dei suoceri, e la seconda (Carolina Crescentini) insicura fino ad essere insopportabile. Completano la comitiva i vari nipoti dei festeggiati e una zia anziana (Sandra Milo) con i suoi due figli: il primo con l’Alzheimer (Massimo Ghini) e il secondo (Gianmarco Tognazzi) fragile e disgraziato, mezzo parassita, la cui ragazza (Giulia Michelini) porta un figlio in grembo. Per un giorno riescono tutti a fingere: trattengono il disordine e le bugie sotto la pelle, ma quando il vento blocca il traghetto che deve riportarli a casa – e tutti debbono dormire insieme – le tensioni, la rabbia ed i dolori esplodono, e quelle canzoni cantate al pianoforte, in coro, il pomeriggio, diventano grida violente di accusa e poi silenzi di impotenza. Se ne andranno ognuno per la propria strada, più tristi e soli di prima, senza riconciliazione e senza la possibilità di una esistenziale ripartenza, tutti troppo deboli rispetto al guaio in cui si trovano e tutti con gli occhi troppo addosso al proprio corpo per accorgersi e prendersi cura del dolore dell’altro, figli compresi.

Somiglia a un giardino abbandonato, questa desolante famiglia italiana, e una prima risposta circa la sua condizione arriva dal capofamiglia anziano e stanco, ma ancora lucido e cinico: «A me la famiglia è sempre stata sul c…o», dice a un certo punto il personaggio di Marescotti. E si vede, verrebbe da rispondergli, è questa la sorgente del disastro: l’incapacità di comunicare amore ai propri figli, la sua importanza, la sua bellezza. Figli perciò cresciuti senza un punto di riferimento fondamentale, senza strumenti per guidare una macchina complessa, delicata e facilmente soggetta ad ammalarsi come la famiglia, senza dubbio è.

Sono personalità fragili, quelle del film, piante poco robuste, che non possono valorizzare alcun giardino: quello della famiglia ma anche quello fuori, sociale e civile. Una famiglia non può funzionare come una squadra, non può fare punti se i calciatori non sono allenati, se non lavorano bene singolarmente. Si dirà che questa è la realtà. Sì, la realtà (in ogni caso esasperata alla Muccino) di molte famiglie e molte persone, purtroppo; poi ci sono tante altre storie di persone e di famiglie in cui le relazioni umane vere non durano solo 20 minuti, come sostiene il personaggio di Accorsi, che su questa convinzione ha pure scritto un libro, ma sono costruite sulle rocce della lealtà, dell’onestà, della verità; storie che possono testimoniare di un rapporto fecondo tra sacrificio e felicità, storie che forse hanno avuto la fortuna di ricevere amore, ma che possono anche aver preso di petto la propria sfortunata origine e il disordine che le stava mangiando e aver scelto di cambiare strada, di mettere al primo posto la reciprocità, la relazione e il prossimo, e da lì hanno costruito famiglie solide. Quelle che Muccino non racconta, che forse non ha ancora incontrato, che non sono perfette, tutt’altro, ma che vivono i loro limiti evidenti (del tutto umani) diversamente da come fanno gli invitati alla deriva sull’Isola (immaginaria) di Ischia. Storie di famiglie che il cinema non racconta spesso, e che invece nella loro semplice e silenziosa fiducia nella famiglia stessa potrebbero insegnare a molti, e forse anche commuoverli mostrando loro lo sforzo e il risultato.

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