Carta straccia

Giampaolo Pansa - Rizzoli 
carta straccia

Si sta davanti a Giampaolo Pansa come di fronte al Garibaldi del Gianicolo. Come fosse un monumento del giornalismo. E tuttavia, negli ultimi anni, piuttosto che star lì immobile, Pansa si è dato parecchio da fare. Dopo trent’anni passati tra Repubblica e l’Espresso scrive ora editoriali per Libero. Di più. Figlio del Monferrato dalla solida tradizione partigiana, si è guadagnato la patente di “revisionista” scrivendo una serie di libri discussi, centrati più sul sangue dei vinti che sulla resistenza dei vincitori. Non ha mai perso il gusto di polemizzare e una conferma che la sua vena provocatoria non si sia esaurita la fornisce il suo ultimo libro.

 

Via di mezzo tra autobiografia e saggio sul giornalismo, il suo assunto è: quel che la nostra stampa produce è roba da mandare al macero. Parte dalla convinzione che in Italia la sinistra domini l’informazione e la usi ormai da anni come strumento di lotta politica per abbattere Berlusconi. Argomento forse non privo di fondamento, ma che sarebbe stato più convincente se Pansa avesse ricordato le storture di una stampa che anche a destra non si distingue certo per imparzialità e anzi è accusata di aver sdoganato, negli ultimi tempi, il cosiddetto “metodo Boffo”: i dossier usati come randelli per colpire avversari politici. I capitoli che dedica ai suoi primi anni da cronista sono i più belli, un po’ meno quelli in cui sembra spinto da un sottile risentimento.

 

Lo stile è quello del maestro, brillante e scorrevole: una volta che hai iniziato è difficile staccarsi dal libro, anche se non ne condividi la filosofia. Dire, come fa Pansa, che l’unica stampa onesta sia stata quella nella quale lui è cresciuto e ha fatto carriera, oltre a non essere totalmente vero non è neanche generoso nei confronti di chi comincia oggi a fare giornalismo e di chi continua a farlo, ogni giorno, rispondendo soltanto alla propria coscienza.

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