Carracci – La gioia di vivere

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Essere considerato da Caravaggio un valent’huomo non è poco, conoscendo il carattere di costui. Trovarsi poi ad ammirare le tele di entrambi nella romana cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo, osservare da vicino due caratteri, due diversi e anche complementari modi di affrontare l’arte è uno spettacolo. L’Assunta di Annibale troneggia al centro, rutilante di colore lombardo-veneto in forme neo-raffaellesche che impiantano un teatro di fede bello e solenne; ai lati le tele in diagonale, fulmineamente chiaroscurate, del Caravaggio sono dramma reale e meditazione. Annibale canta in forme espanse, Merisi è più ardito.Ma nel Carracci, a ben vedere, i sentimenti sono vivi, veri, anche se rivestiti dei panneggi della classicità. È quindi anche per Annibale la vita il centro della propria espressione poetica in quell’anno 1601, quando il tardomanierismo sta cedendo il passo al barocco che è, sia nella nostalgia classica, come nell’indagine sul reale, ai primi albori. Annibale viene da Bologna ed è figlio di un macellaio. L’ambiente culturale e umano lo porta a fotografare botteghe, gente umile, e insieme a leggere la storia antica sul piano del simbolo, di valori da illustrare a chi guarda, siano esse vicende bibliche o mitiche. Non c’è in lui una doppia anima, anche se il linguaggio varia dall’espressività di un Mangiafagioli, alla sensualità di una Venere e amorino, alla pietà dei crocifissi o alla predicazione delle pale d’altare. Unisce via via, Annibale, decoro a sguardo sul vissuto, parlando con le mani, come egli sosteneva dovesse esprimersi un pittore. Roma, dove scende sul 1595 chiamato dai Farnese, è il momento splendente della sua arte. Chi sale per le rampe di Palazzo Farnese e si addentra nella Galleria che Annibale e compagni hanno dipinti in quegli anni si trova sbalordito dall’esplosione di felicità che risuona nella volta e nelle pareti. Il cosiddetto Trionfo di Bacco sulla volta non è solo l’omaggio all’ideale della classicità, ma una festa della solarità della vita in tutti i suoi aspetti, poiché il vero tema della Galleria è quello dell’Unione tra Venere celeste e terrestre, cioè dell’amore divino-umano con un forte significato allegorico morale. È l’amore infatti che dà senso a tutto ciò per cui uomini e cose sono stati creati. Annibale ne è convinto: dipinge con una scioltezza, una morbidezza, una luminosità irradiante un mondo ideale dove tutto viene sublimato, avvolto nel nitore della classicità. Ma i sentimenti sono veri, l’entusiasmo che trascorre nel chiarore cromatico è autentico. Sotto le storie mitologiche si parla di personaggi che manifestano una inesauribile gioia di vivere, ed il pennello di Annibale compone per pareti riquadri e medaglioni una sinfonia di colori e di luci di supremo equilibrio e di forte vitalità. Sarà pagato a caro prezzo questo capolavoro, come succede spesso ai grandi artisti. I Farnese infatti non manifestano ad Annibale tutta la comprensione che egli si aspetta. La sensibilità del pittore è tale che ne soffre, anzi entra in una depressione che gli amareggia la vita. Ritorna ad un tema molto caro, quello della Pietà. L’ultima versione, ora a Napoli, è struggente. La Vergine sostiene il corpo apollineo del Cristo, rivestito di luce. Il lamento ed il gesto sofferto della Madre giungono anche a noi: dietro al loro dolore si nasconde Annibale che contempla in quella morte forse anche la sua. È nel gioco delle due mani, abbandonate, del Cristo uno spiraglio della sua propria desolazione. Muore infatti a 49 anni, non si sa come. Lasciando in questo capolavoro di nobiltà e verità il ritratto forse più autentico, fra i tanti che ha dipinto, della sua anima. Annibale Carracci. Roma, DART Chiostro del Bramante, fino al 6/5 (catalogo Electa).

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