Cardinale Petrocchi: la luce della resurrezione sull’Aquila

«Dio è fedele e non permette mai che la nostra esistenza sia visitata da una sofferenza disperata. Anche nel dramma del terremoto – afferma il cardinale Giuseppe Petrocchi – c’è stato un intervento di Dio, che dà una luce speciale e una forza che da soli non avremmo, per consentirci di compiere una missione che non è alla nostra portata, ma che possiamo realizzare: insieme e col suo aiuto». Nel numero di aprile di Città Nuova, un reportage sulla ricostruzione della città
Piazza del Duomo a L'Aquila

Dieci anni dopo il 6 aprile 2009, invece del buio, delle grida e della devastazione, alle 3.32 di notte una scia luminosa ha percorso le strade dell’Aquila. Con una fiaccolata, i parenti delle vittime del terremoto che spezzò la vita a 309 persone, hanno ricordato i loro cari e la notte più dura per la comunità, insieme a tante persone che hanno vissuto tragedie simili a Rigopiano, Amatrice, San Giuliano di Puglia, Viareggio.

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Tutta l’Italia si è stretta agli aquilani nel decimo anniversario del sisma che ancora oggi lascia segni evidentissimi sul territorio: nel centro storico, nelle frazioni, nel cuore dei sopravvissuti, che anche se rimasero in vita, quella notte persero una parte del proprio cuore e c’è ancora chi fatica a ritrovarlo. Eppure, anche nel dolore, c’è una speranza: c’è una luce che vuole ancora brillare, c’è un segno profetico che va colto e realizzato.

Ne è sicuro il cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo dell’Aquila. «È molto importante – afferma – che l’Aquila possa avvertire, nella “notte” di dolore che l’ha colpita, la luce di una risurrezione che le viene offerta, perché Dio è fedele e non permette mai che la nostra esistenza sia visitata da una sofferenza disperata. Poiché il Crocifisso è Risorto, dentro qualunque situazione apre strade di Vita nuova e più piena: bisogna essere pronti a percepirle e a percorrerle. Credo, quindi, che anche nel dramma del terremoto c’è stato un intervento di Dio, che dà una luce speciale e una forza che da soli non avremmo, per consentirci di compiere una missione che non è alla nostra portata, ma che possiamo realizzare: insieme e col suo aiuto».

Cardinale Petrocchi, sono passati dieci anni dal terremoto del 6 aprile 2009. Lei allora non c’era, si è insediato solo nel luglio 2013. Quali ritiene che siano ancora le emergenze della città e della sua diocesi?
Ci sono emergenze legate alla ricostruzione abitativa e anche al patrimonio monumentale: per esempio, le attività tese al recupero di chiese di grande rilevanza storica ed ecclesiale (come il duomo), segnano ancora il passo. Si registrano evidenti ritardi, anche se la ricostruzione civile risulta più snella e rapida di quella pubblica. Tuttavia, il tema della ricostruzione degli aspetti murari non deve far passare su un piano remoto l’altra ricostruzione, quella delle persone e quindi della comunità. Spesso dico che il terremoto è come la luna, ha due facce: una visibile, perché è illuminata da riflettori mediatici, e l’altra coperta, che rischia di rimanere all’oscuro. Per arrivare a scandagliare la parte non visibile occorre avere delle attrezzature “cognitive” particolari. La parte visibile del terremoto è la devastazione che ha provocato alle case e alle cose. L’altro aspetto, invece, è costituito dai gravi danni prodotti nell’anima delle persone: quindi, nel modo di pensare, di sentire, di relazionarsi a sé e con gli altri, nel rapporto con il passato, con il presente e quindi anche con il futuro. Questo collegamento è stato in qualche modo spezzato, quindi va ricomposto.

È stato anche un terremoto dell’anima, da cui è difficile guarire…
Pensate cosa vuol dire perdere i luoghi abituali della vita sociale e i siti identitari di una comunità; cosa significhi trovarsi spostati, in modo improvviso e traumatico, in abitazioni che non sono le proprie e realizzate come strutture provvisorie, visto che diverse migliaia di aquilani sono ancora negli appartamenti del Progetto case e nei Map. Capita che quando l’evento geologico si esaurisce e può dirsi concluso (anche se a L’Aquila siamo “ri-terremotati”, viste le repliche delle scosse nel 2016 e 2017), il “sisma dell’anima” continua e gli sciami problematici che attiva si prolungano nel tempo. Chi ha perso un figlio, i genitori, i parenti, gli amici; chi si è trovato in pericolo di vita; chi ha visto in poco tempo venir meno i parametri della propria sicurezza e s’accorge che il suo futuro è compromesso… ha in sé tensioni e conflittualità che, come un’onda alta, continuano negli anni. Succede pure che l’attenzione primaria a soccorrere le urgenze abitative riduca la concentrazione per esplorare queste altre situazioni di indigenza. A me sembra che spesso manchino le attrezzature – di tipo spirituale, psicologico e sociale – per intervenire su questi tipi di catastrofi e di drammi. Ecco perché l’intera comunità deve essere mobilitata nell’ascoltare la sofferenza di chi è stato così fortemente provato; poi insieme bisogna cercare le risposte, sapendo che dentro una situazione di dolore non c’è mai solo l’aspetto della disgrazia, ma agisce anche una misteriosa presenza di Dio, che è Amore.

manifestazione-per-i-dieci-anni-dal-terremoto-dellaquila-foto-ansaPuò spiegarci meglio cosa intende?
Faccio un esempio che mettevo in campo quando facevo formazione spirituale ai giovani. Dicevo che nella vita capita di ricevere – davanti alla propria porta “esistenziale” –  dei pacchi, che possono provenire direttamente dall’Eterno Padre o che vengono da altri o dalle circostanza: talvolta sono voluminosi e ingombranti. Spesso la confezione con cui questi pacchi vengono avvolti non ci piace, perché ci sembra carta straccia e macchiata. Di conseguenza, se l’involucro non è di nostro gradimento, può provocare un rigetto. Siccome, però, Dio è Amore, non permette mai che qualche pacco arrivi alla porta di casa senza che prima Lui vi abbia deposto qualcosa di prezioso: per esempio un diamante. In questi casi, gli atteggiamenti che si possono avere sono tre. Il primo, è quello di guardare con rabbia l’evento, cioè il pacco, buttandolo via con un calcio. Il risultato è che il pacco viene scaraventato fuori del nostro spazio vitale, ma, facendo così, il diamante che c’è dentro non viene scoperto e si perde. Il secondo atteggiamento sta nell’aprire il pacco, senza notare però la presenza del diamante, che rotola via; il destinatario tuttavia mantiene la confezione sgradevole dell’involucro, la espone sulle pareti del proprio racconto e commenta a quanti la osservano: “Vedi che cosa brutta mi è successa?”. Il resoconto, che viene fatto, risulta solo negativo: compare l’aspetto “dolente” dell’evento, ma non il dono che vi era stato deposto. C’è, infine, chi accetta il pacco: lo apre, prende il diamante e mette via l’involucro. In questi casi chi racconta l’accaduto riferisce gli aspetti graffianti e le frustrazioni, ma dice pure con gioia: “Il bene che ne ho ricavato è immensamente più del male che ho dovuto soffrire”.

Quindi bisogna imparare ad andare “oltre”…
In questo terzo caso, la ricostruzione di ciò che è accaduto avviene nel segno dell’intelligenza della fede, ma anche della sana ragione umana, che va oltre l’aspetto fenomenico dell’evento e coglie il significato profondo. I Padri della Chiesa distinguevano tra “historia rerum gestarum”, cioè il racconto di ciò che è accaduto (la cronaca dei fatti), e “historia salutis”, cioè l’azione provvidenziale di Dio dentro la storia (Il Suo disegno di Amore). Andando oltre il sipario degli eventi, ci si accorge che Dio opera per la nostra salvezza e agisce – sempre e dovunque – come Padre che ha a cuore la sorte dei figli. Perciò, Dio – se ci apriamo alla Sua grazia – non solo ci rende idonei a rispondere al male con il bene, ma anche ci fa capaci di ricavare il bene dal male.

laquila-comera-dopo-il-terremoto-e-come-e-dieci-anni-dopo-foto-ansaSi tratta dunque di cogliere il segno profetico che c’è in ogni evento, anche molto negativo…
Dentro un dramma come quello del terremoto – a cui ci si deve accostare con infinito rispetto -, bisogna chiedersi quali sono le “opportunità buone” che vengono date: se per esempio, il trasferimento in alloggi che dovevano essere provvisori e che sono stati invece stabili, determina pesanti disagi, offre pure – come qualcuno mi ha detto – occasioni per incontrare persone con cui non si sarebbe mai venuti in contatto. Si è, per così dire, tirati fuori da un mondo standardizzato e si è chiamati ad avviare nuove forme di coabitazione. Attraverso una riflessione che non può essere al singolare, ma deve essere sempre al plurale, perché l’“io” non basta, occorre un “noi” ben equipaggiato – la Città di L’Aquila è chiamata a trarre dalla tragedia una lezione di vita: un’esperienza assimilata e resa positiva per sé, ma anche per altri. Non soltanto un grido di sofferenza, ma una parola di vita: carica di prossimità e di speranza. A L’Aquila non possiamo sottrarci all’obbligo morale e civile di ripercorrere  i vari passaggi che hanno cadenzato il post-sisma: dobbiamo rivisitarli criticamente per ricavare, dai fatti accaduti, le indicazioni positive, da passare ad altri che si trovano in situazioni simili, come anche individuare gli errori o inadeguatezze, che è bene segnalare perché altri li evitino.

 Questa opportunità per uscire dagli schemi per aprirsi ad una comunità più allargata può non essere compresa bene da chi si è visto sradicare dai luoghi della propria vita e da persone care e si è ritrovato in un contesto diverso, meno aggregante. Come recuperare il senso di comunità o a creare nuove forme di incontro?
Questa domanda non trova una risposta già fatta, cioè già codificata e pronta per essere messa nel circuito delle condivisioni. È una domanda mirata a suscitare una riflessione comunitaria, che diventa poi scuola: nella quale siamo docenti e allievi al tempo stesso. Una scuola non verticistica, ma allargata a 360°: perché deve essere attenta alla voce di tutti, anche degli ultimi; infatti, proprio coloro che sono stati emarginati a causa del sisma hanno molto da esprimere. Bisogna saper ascoltare, ma l’ascolto è difficile, non è scontato.  Distinguo spesso tra “ascoltare” (che comporta fare spazio all’altro nel proprio cuore) e “stare a sentire” (che si limita alla semplice registrazione di ciò che viene manifestato). Questa distinzione è analoga a quella tra “comunicare” e “informare”: comunicare è “dirsi” (che implica sempre un “darsi”), mentre informare è semplicemente “dire qualcosa”, cioè trasmettere una notizia. Ascoltare significa incontrare l’altro, lasciargli spazio e consentirgli di trovare casa dentro di noi. Ciò gli permette di dare, con libertà, quello che porta dentro con opprimente fatica. Solo l’ascolto apre la strada per capire il prossimo in profondità, e la comprensione offre la possibilità di rendere l’esperienza, che si è maturata insieme, un messaggio da donare agli altri.

Ascoltare per aiutare l’altro…
Il primo atteggiamento di un amore che sa rendersi-prossimo è l’ascolto integrale, sereno, senza fretta e senza condizionamenti. L’ascolto deve portare a una apertura senza filtri, cioè senza moduli interpretativi precostituiti, per raggiungere gli altri nella loro anima e intuire ciò di cui c’è bisogno e come poterlo fare insieme. L’amore-che-ascolta diventa poi l’amore-che-comprende, cioè l’amore intelligente (dal latino “intus-legere”) che sa entrare dentro le situazioni, superando i confini delle apparenze e delle prospettive scontate. Questo amore, capace di vedere – oltre i paraventi – le cose come sono, diventa poi un amore-progettuale, che sa attivare cantieri per ricostruire la comunità: impresa, questa, da impostare e condurre in unità. Un’opera di questo genere, infatti, va fatta nel segno del “noi”, nel segno di una fraternità che dialoga e va verso l’altro con amore e secondo verità. Nella misura in cui una comunità ecclesiale e sociale sa costruire reali condivisioni, nella stessa proporzione diventa capace di produrre cambiamenti in meglio:  infatti, gli orientamenti concordi si trasformano in solidarietà fattiva e generano risposte efficaci ai problemi della gente.

 

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