Caravaggio e Rembrandt, due Cene da non perdere

Quando i capolavori parlano e dicono cose alte, senza volerlo dire in apparenza. È estate, tempo di viaggi, in Italia o all’estero, per chi può. Desiderio di bellezza, ma anche, forse in qualcuno o molti, di profondità. Senza stancarsi troppo col troppo vedere, ma riposandosi con opere che dicono molto, anzi moltissimo, e riposano.
La cena in Emmaus, Pianacoteca di Brera. Fonte: Wikipedia

A Milano, nella Pinacoteca di Brera, c’è una sola opera di Caravaggio. È una Cena in Emmaus. Non la prima versione del soggetto, ora a Londra, colorata, virtuosistica, ma un po’ vuota: un esercizio d’arte perfetto. La tela milanese invece è sobria, usa colori bassi, un tono sommesso. Un interno di una stanza, una luce soffusa e delicata, tre personaggi che escono lenti dall’ombra: il Cristo e i due discepoli. Il Messia ha un volto normale, non bellissimo, sta benedicendo un pezzo di pane sul tavolo dalla tovaglia bianca. Basta quel gesto e i due uomini sono sorpresi: uno si aggrappa con le mani al tavolo, l’altro – di cui non si vede il volto – alza una mano. L’amico creduto morto è improvvisamente presente, con un gesto semplicissimo. La vecchia serva, stanca e rugosa, china la testa: ha capito tutto. L’oste, curioso, invece guarda senza capire.

Il mistero si fa presente nella semplicità e chi ha l’animo puro, purificato dalla fatica del vivere come la serva, capisce subito. Chi pensa solo ai soldi, come l’oste che osserva un cliente che fa segni strani, invece rimane estraneo. La luce picchia sulla tovaglia sul tavolo: esce dalla mano e dal volto del Cristo, esce cioè dall’ombra. Il Cristo di Caravaggio è qui un vero uomo, uno che passa per la strada, non troppo giovane, uno qualsiasi. Il pittore coglie la profonda reale umanità del Messia.

Quello che stupisce in un lavoro tanto silenzioso, pudico, dai timbri pacati che armonizza i sentimenti in qualcosa che ha i l suono di una presenza inattesa e bellissima è che chi l’ha dipinto, cioè Caravaggio, si trovava in un momento terribile della sua vita, in quel 1606.

Il pittore era scappato da Roma dopo un omicidio, si era rifugiato dai Colonna in un castello laziale, ricercato dalla polizia, e forse per ripagare l’ospitalità ha dipinto la tela. È quando c’è la desolazione, la morte vicina, quando tutto sparisce e l’insicurezza regna sovrana che il cuore dell’uomo si disarma, ed in quel vuoto l’ispirazione pura trova la sua strada, genera opere d’interiorità profonda e fa dell’arte un uso sobrio, non eclatante, non fatto per stupire, ma per dire qualcosa di vero. Ossia, in questo caso, il passaggio del divino nella normalità del quotidiano, capace di lasciare un segno inaspettato che può cambiare la vita.

La cena in Emmaus, Louvre. Fonte: Wikipedia

Parigi, Louvre. La Cena di Rembrandt è del 1648, gli anni della piena maturità, del successo del pittore. L’artista olandese la colloca all’interno di un edificio maestoso e solitario, dove la luce vaga qua e là in accensioni con un colore che tende al monocromo, ossia una tinta terrosa, sul marrone luminoso. Sobrietà di colori, sobrietà di mezzi, tipica dell’arte grande. Seduti al tavolo due uomini, uno vecchio ed uno più giovane, un ragazzo a servire. Poi, null’altro, se non le ombre cariche di luce nebbiosa su cui sfolgora il Cristo seduto, colto nello spezzare il pane. È un Messia dagli occhi cerchiati di chi ha sofferto, i l volto è quello di un ebreo del ghetto di Amsterdam dove viveva il pittore che per i suoi numerosi ritratti di Cristo si è appunto servito di personaggi ebrei.

Tutta la tela è concentrata sull’esile figura di Gesù, dalla tunica violacea dipinta a filamenti lunghissimi, morbidi, quasi evanescenti. L’alone luminoso che irradia dal volto di Cristo sorprende i discepoli e invade invece con un raggio il viso del ragazzo. I giovani ingenui, candidi ed umili che servono per vivere intuiscono chi sia il Personaggio prima dei discepoli, storditi dall’imprevisto. Anzi, il discepolo più anziano assume un atteggiamento interrogativo: è lui o non è lui?. Il ragazzo invece si inchina a portare le vivande e in quel gesto sommesso riceve il raggio della rivelazione.

Se Caravaggio fa risplendere l’umanità di Cristo, Rembrandt, senza dimenticarla, irradia la sua divinità. Ma la luce divina non abbaglia, non confonde come in altri artisti, è tenue, sottilissima, rispettosa, si direbbe. Nel volto indimenticabile di questo Cristo ebreo si svela tutta la visione di un Dio colta nell’intimità di un luogo chiuso, ombreggiato da palpitazioni luminose, dell’anima umile. Ancora un capolavoro da”ascoltare”.

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