Caratteristiche dell’inculturazione di comunione

Ecclesialità, universalità, "farsi uno" per amore, reciprocità, unità e presenza di Gesù in mezzo alla comunità, la Chiesa testimone di Cristo morto e risorto in una società interculturale.

Tenendo presente la visione conciliare relativa al Vangelo come messaggio di comunione, di cui ho parlato in un precedente articolo in Unità e Carismi 6 (2007) 19-23, si possono individuare alcune linee maestre che si legano organicamente all’inculturazione di comunione e che pure la caratterizzano in particolare.

Dimensione ecclesiale

Dai passi del Concilio, l’inculturazione risulta fondamentalmente un processo comunitario che impegna tutta la Chiesa universale e, necessariamente, le Chiese particolari nelle quali essa si esprime, essendo queste come delle sue cellule viventi in un determinato contesto.

Ma quale Chiesa? Quella naturalmente che il Vaticano II scopre essere comunione in missione; quella che, per compiere la missione ereditata da Dio, vuole presentarsi al mondo e presentare la salvezza di Cristo con una testimonianza di comunione ad immagine della Trinità.

Anzi, la realtà della comunione è anche il primo riflesso della Chiesa davanti al mondo e quindi di fronte alle culture che contiene. Effettivamente, la Chiesa, “cosciente della sua missione universale, può entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione arricchisce tanto la Chiesa stessa quanto le varie culture” (GS 58).

Non si tratta dunque di un impegno che spetta solo al singolo o a un gruppo di missionari, ma piuttosto di un processo che domanda l’impegno continuo di tutto il popolo di Dio, il quale vive la sua fede in seno ad una Chiesa particolare e la incarna nel suo contesto culturale.

Dimensione universale

Tale processo si iscrive, come del resto la comunione, nell’orizzonte della fraternità universale. Pertanto, esso aiuta i cristiani a comprendere adeguatamente se stessi, (“il significato genuino della vita cristiana”) mantenendoli aperti verso “l’universale solidarietà che lega gli uomini tra loro” (AG 11).

Ai laici, che sembrano essere ritenuti la componente ecclesiale più adatta all’inculturazione, è rivolta l’esortazione, affinché “si sentano uniti ai loro cittadini da sincero amore, rivelando con il loro comportamento quel vincolo assolutamente nuovo di unità e di solidarietà universale, che attingono dal mistero di Cristo” (AG 21).

In questo senso l’impegno di inculturazione è indispensabile alla Chiesa, come ad ogni individuo, per conoscere più profondamente se stessa; per ricercare quel modus vivendi adattato e comprensibile al contesto culturale in cui vive; per presentarsi al mondo, in forza della sua comunione cattolica, come germe di fraternità universale, capace di assumere in un’armonia nuova la ricchezza culturale dei popoli (cf. AG 22).

Così ogni sforzo e sacrificio per l’inculturazione, conduce ad una comunione sempre più grande e sempre più vicina a quella prevista dal piano di salvezza di Dio, la fraternità universale, che viene chiamata anche “l’amore universale tra i popoli”, qualcosa di simile alla “civiltà dell’amore” (cf. AG 15).

Si capisce allora come l’inculturazione, pur essendo finalizzata all’universalità, esige un annuncio fatto “porta a porta”, un hic et nunc di concretezza e di relazionalità, di inserzione positiva nel vivere umano e di vero amore per la propria patria, storia e cultura che i discepoli di Cristo sono chiamati ad assumere profondamente.

Dimensione agapica

Trattandosi di una inculturazione di comunione, essa non può che risiedere completamente e interamente riassumersi, come fu in Cristo, nel comandamento evangelico dell’amore: “La presenza dei cristiani nei gruppi umani deve essere animata da quella carità con la quale Dio ci ha amato: egli vuole appunto che anche noi reciprocamente ci amiamo con la stessa carità. Ed effettivamente la carità cristiana si estende a tutti senza discriminazioni etniche, sociali o religiose, senza prospettive di guadagno o di gratitudine. Come Dio ci ha amato con amore disinteressato, così anche i fedeli con la loro carità debbono preoccuparsi dell’uomo, amandolo con lo stesso sentimento, con cui Dio ha cercato l’ uomo” (AG 12).

Tale amore, che sorpassa l’amore platonico e quello filantropico, è quello di Dio manifestato dalla vita di Cristo ed effuso dallo Spirito nel cuore dei credenti (cf. Rm 5, 5) ed è destinato alla realizzazione della comunione personale e culturale. In questo modo il processo di inculturazione, pervaso dall’amore, è via sicura alla comunione.

Farsi uno

Questa testimonianza d’amore, senza cui non c’è comunione e neanche autentica inculturazione, si traduce in una caratteristica dell’amore divino che consiste, secondo Chiara Lubich, nel “farsi uno” con il prossimo, attraverso una capacità di dialogo che significa apertura, accoglienza, attenzione, condivisione, compassione e solidarietà per l’altro.

Si tratta in altre parole dello stesso metodo di Cristo. Con il “farsi uno”, la Chiesa non fa altro che imitare, come è chiamata a farlo sempre e dappertutto, la kénosi incarnatrice del suo Maestro: “La Chiesa quindi, per essere in grado di offrire a tutti il mistero della salvezza e la vita, che Dio ha portato all’uomo, deve cercare di inserirsi in tutti questi raggruppamenti con lo stesso metodo, con cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione, si legò a quel certo ambiente socio culturale degli uomini, in mezzo ai quali visse” (AG 10).

Concretamente, per dare questa testimonianza di comunione che traduce il “farsi uno”, i discepoli di Cristo, riuniti nella sua Chiesa, “debbono stringer rapporti di stima e di amore con questi uomini, e dimostrarsi membra vive di quel gruppo umano, in mezzo a cui vivono, e prender parte, attraverso il complesso delle relazioni e degli affari dell’umana esistenza, alla vita culturale e sociale. Così debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo, che essi nascondono” (AG 11).

Dimensione pasquale e pneumatica

Seguire nel processo di inculturazione di comunione lo stesso metodo di Cristo, quello dell’incarnazione, comporta in qualche modo uno spodestamento, un perdersi nell’alterità, un morire per amore nell’altro1.

Gesù, facendosi uno con l’umanità, accettò di annientarsi, dapprima diventando uomo (incarnazione) e poi passando per la kénosi fino alla “morte e alla morte di croce” (Fil 2, 8). Per un’efficace inculturazione e per la realizzazione di una comunione che abbia lo spessore del Vangelo, la strada indicata e la vita obbligatoria è quella del Signore che si unisce all’umanità, facendosi uno fino al dono della vita.

Secondo l’esperienza di coloro che cercano di vivere la comunione in comunità internazionali, sembrerebbe proprio questo il punto più delicato e decisivo, affinché l’inculturazione sia effettivamente inculturazione di comunione e porti come frutto l’unità.

Nella pratica della carità, infatti, coloro che si fanno uno per amore reciprocamente passano attraverso il mistero di morte di Gesù, che è annientamento di se stessi e, da qui, si ritrovano risorti in una nuova unità, dove il Vangelo si manifesta come luce pura che unisce persone e culture.

Il “farsi uno” per amore, vissuto nella reciprocità, ha come frutto la presenza di Gesù (Mt 18, 20) che con il suo Spirito guida il loro dialogo nella ricerca della volontà di Dio anche nell’inculturazione.

Il “farsi uno” per amore mette tutti coloro che si incontrano, e che lo praticano, di fronte al Vangelo che, per opera dello Spirito di Gesù presente in mezzo a loro, diventa come una “luce bianca” capace di far posto e colorarsi di tutte le loro culture.

L’inculturazione allora diventa testimonianza di evangelica comunione, perché essa è costituita, attira e unisce sempre di più a Gesù risorto presente nella comunità di coloro che si amano e che diventa la sua manifestazione più eloquente2.

È nella croce di Cristo, fuoco d’amore, che tutte le diversità si consumano in uno per far risplendere la luce del Risorto, capace di illuminare ed unire coloro che a Lui si aprono in una comunione sempre più simile a quella della Trinità, mistero di unità e diversità. Prende vita qui la cattolicità, umana e culturale, che la Chiesa realizza grazie alla potenza della risurrezione di Cristo.

La missione della Chiesa è quella di portare a compimento il suo connaturale progetto di comunione cattolica, rendendo continuamente presente Gesù nel mondo di oggi, in mezzo alle diversità culturali che contraddistinguono l’umanità. Evento che diventa possibile grazie alla comunione vissuta in nome di Cristo.

Quest’ultima, insieme agli altri sacramenti e in modo particolare all’Eucaristia, rende presente Cristo nella storia, lì dove si manifestano le varietà delle culture. In questo modo la Chiesa, attraverso la sua missione sorretta dalla comunione, ha nella presenza del Signore l’energia divina che le permette di cogliere “ogni elemento di verità e di grazia presente e riscontrabile, per una nascosta presenza di Dio, in mezzo ai pagani, essa lo purifica dalle scorie del male e lo restituisce intatto al suo autore, cioè a Cristo” (AG 9).

Tenendo presente la visione universale di Gaudium et spes (cf. GS 23.32.42.82.91-93), possiamo dire che se nel Concilio si avvia il discorso dell’inculturazione, tale processo nasce con le sembianze della comunione che, in forza del mistero pasquale, assume in uno tutte le diversità culturali e le conduce alla fraternità universale.

Inculturazione di comunione e interculturalità

Processo complesso, proprio della metodologia missionaria, l’inculturazione può intervenire in situazioni molto diverse tra loro. C’è, per esempio, l’inculturazione nella quale il Vangelo, tramite i missionari, incontra la cultura di un popolo.

In questo caso l’inculturazione si gioca tra due poli. Il primo dei quali (Vangelo-missionari), se il processo è ben fatto, sarà sostituito dal nuovo polo Vangelo-giovane Chiesa. È un tipo di processo che ormai si sta diradando, a causa della globalizzazione che fa crescere dappertutto il fenomeno dell’interazione tra le culture.

Di fatto, c’è in atto, e aumenta sempre di più, il fenomeno di un’altro tipo d’inculturazione che interpella urgentemente la Chiesa di oggi: quella da realizzare dove il Vangelo incontra contemporaneamente molteplici culture.

Nel primo caso, il Vangelo è come un seme di comunione che porta la cultura incontrata ad accoglierlo, e, nella dinamica del mistero pasquale di morte e di resurrezione, a farlo crescere e a riesprimerlo nelle categorie della cultura data, la quale poi a sua volta dovrà trasmettere questo stesso seme di comunione del Vangelo inculturato ad altre culture.

Nel secondo caso, il Vangelo, annunciato e testimoniato in molteplici culture, agisce come un seme di comunione capace, sempre in forza del mistero pasquale, di tenere insieme le differenze culturali e farle risorgere in una nuova unità, segno della nuova creazione, aperta alla fraternità universale.

Nei due casi, c’è un’incarnazione del Vangelo, sull’esempio dell’incarnazione del Verbo di Dio, Gesù Cristo nostro Signore; c’è una kénosi e una resurrezione culturale che, come a Pentecoste, si esprime in una nuova comunione ricca di tutte le diversità.

In sostanza, l’inculturazione alla luce dell’ecclesiologia di comunione è da considerare come un processo a carattere missionario che, in un dialogo assunto a stile di vita, esprime concretamente, presso i popoli e le loro culture, l’amore di Dio che in sé è ordinato alla comunione.

Praticamente, è sempre lo stesso Vangelo di comunione che fa la sua corsa, portando tutte le particolarità perdute per amore a ritrovarsi in comunione cattolica, la fraternità universale, frutto e espressione della civiltà dell’amore e della nuova evangelizzazione (cf. CL 31-34).

Pertanto, il Vangelo annunciato e vissuto come messaggio di comunione è la vera forza di tutto il processo di inculturazione. Essa però si deve concepire non chiusa in se stessa, ma aperta all’interculturalità3. D’altronde è questa apertura che garantisce all’inculturazione tutto il suo significato e la sua indispensabile utilità alla cattolicità del cristianesimo.

La Chiesa nascente

La prospettiva che il Concilio apre riguardo ad una inculturazione di comunione può sembrare nuova, ma in realtà è antica come la Parola, la comunione e l’amore (cf. 1 Gv 1, 1-3; 2, 7). Essa è in forte consonanza con l’esempio della comunità primitiva di Gerusalemme e delle prime Chiese degli Atti degli Apostoli.

Nel caso della primitiva comunità di Gerusalemme l’esempio è chiaro. Questa Chiesa nascente si presenta, al di là di ogni idealizzazione, come un paradigma storico di comunione missionaria che risolve positivamente l’inculturazione in rapporto al giudaismo – vedi per esempio il primo discorso di Pietro che spiega il kérygma cristiano rifacendosi e imprestando le categorie dell’Antico Testamento (cf. Atti 2, 14-46 ), – e all’incontro interculturale con i proseliti provenienti dalle altre nazioni pagane, accogliendo tutti nella stessa comunità.

Essa, formata da tutte queste diversità culturali, restava fedele e trovava nuova forza nel vivere la koinonia. E grazie a questa inculturazione di comunione si imponeva come una comunità che viveva e annunciava il Vangelo.

Una koinonia dunque missionaria e inculturata, ossia una comunità che offre una testimonianza del Signore risorto; una comunità dove Lui stesso, presente in mezzo ai suoi membri, esprime la loro nuova unità culturale e ne diventa la forza divina d’attrazione per tutti. Effettivamente a Gerusalemme, secondo quanto è scritto, lo stesso Gesù “ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (Atti 2, 48; cf. 5, 14).

Si può intuire che, in seguito ad una presa di coscienza, le Chiese apostoliche erano coinvolte quasi spontaneamente in un processo d’inculturazione e d’aggregazione interculturale. Il Vangelo era percepito dai discepoli del Signore veramente come un messaggio divino rivelatore e comunicativo dell’amore trinitario (cf. Gv 14, 23) che allo stesso tempo li conduceva a un vissuto di comunione fraterna.

In mezzo ad una società che riuniva persone di religioni, culture e nazionalità diverse, le Chiese degli Atti degli Apostoli riuscirono ad armonizzare in maniera esemplare, non senza pene e conflitti, lo sforzo d’inculturazione e di interculturalità.

Senza perdere di vista la fraternità universale voluta dal loro Signore, esse dimostravano di reagire positivamente alle convinzioni di Paolo, “… perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo: non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina, perché tutti siete uno solo in Cristo” (Gal 3, 26-28; cf. Rm 10, 12; 1 Cor 12, 12-13; Col 3, 11).

La Chiesa, come una famiglia e come un corpo formato da molteplici membra, possiede in Cristo, al di sopra di ogni legame umano, il centro della sua comunione. Gesù stesso, presente, annunciato e conosciuto grazie al Vangelo che genera comunione, agisce per integrare nell’unità organica e differenziata della famiglia di Dio tutte le alterità dovute alle differenze personali sociali e culturali “affinché egli sia il primogenito fra molti fratelli”(Rm 8, 29).

È l’inizio della ricapitolazione arricchente di tutti gli esseri in Gesù Cristo (cf. Ef 1, 10), così come il preludio della fraternità universale “per Lui, con Lui ed in Lui”, la pienezza della riconciliazione e della pace (cf. Col 1, 18-20).

Conclusione

L’approfondimento dell’inculturazione alla luce dell’ecclesiologia di comunione ci permette di stabilire che essa è strettamente legata alla comunione e cattolicità della Chiesa, perché ha come fine la realizzazione della fraternità universale. Da questa considerazione deriva principalmente la sua opportunità e necessità.

Diventa perciò inconsistente e improduttiva l’inculturazione che si vuole chiudere in se stessa, cedendo alle tentazioni del culturalismo e del nazionalismo. Essa è chiamata a restare aperta all’incontro interculturale.

L’inculturazione poi non è folklore o esotismo. Lo spessore teologico della comunione la inscrive piuttosto in un paradigma di alleanza d’amore da parte di Dio nei confronti di tutti i popoli della terra.

La sua simbologia più eloquente è il seme della Parola seminato in una buona terra, come pure il matrimonio, simbolo di un unione e di una condivisione profonda d’amore che genera alterità nella prospettiva della nuova creazione escatologica prevista dal disegno di salvezza di Dio.

Anch’essa, come la comunione e la missione, ha la sua sorgente nella Trinità e trova la sua forza di realizzazione nel Cristo, “Vangelo di Dio” (Mc 1, 14; Rm 1,1; 15, 16; 2 Cor 11, 7; 1 Ts 2, 2.8.9; 1 Pt 4, 17), principio e centro di comunione.

Solo se è realizzata possedendo i sentimenti del Cristo, ovvero quelli di una kénosi per amore (cf. Fil 2, 5-7), l’inculturazione può essere evangelica e dunque divenire una testimonianza della sua risurrezione, capace di produrre una unità ritrovata, nuova e armoniosa di tutte le ricchezze culturali dei popoli.

Nel quadro dell’ecclesiologia di comunione e di missione, l’inculturazione, il dialogo e la testimonianza si presentano come vie e modalità complementari e interdipendenti per far conoscere e far partecipare l’umanità al mistero d’amore della Trinità. L’amore è “il motore della missione” (RM 60) in tutti i suoi aspetti, anche quello dell’inculturazione.

La missione della Chiesa, in definitiva, può essere contenuta nel semplice segno della croce che evoca l’unità nella distinzione della Trinità e l’amore crocifisso del Cristo: kénosi e comunione.

 

1 Sfogliando il numero della rivista Spiritus 164 (2001), dedicato alla interculturalità, ci si rende conto di quanto gli autori considerano la dimensione pasquale necessaria ad ogni processo d’inculturazione aperta all’interculturalità.

2 Sulla presenza di Gesù in mezzo ai discepoli e l’inculturazione, cf. R. Beller, Life, person and community in Africa. A way towards inculturation with the spirituality of the Focolare, Nairobi 2001.

3 Con questo termine si vuole indicare il fenomeno del pluralismo culturale e religioso assunto come dato di fatto secondo una mentalità evangelica: cf. J-C. Veder, Dire Dieu jusqu’à le célébrer ensemble. Jalons pour une inculturation interculturelle dans la société de l’île Maurice, Port Louis 2004.

 

 

 

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