Cara Rai, ti scrivo

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Cara Rai, ti scrivo, perché sei ormai una persona di casa, e della televisione, in Italia, sei la rappresentante più anziana e prestigiosa. Ti scrivo perché vorrei che ti ricordassi che questo prestigio te lo ha conferito il lavoro di tanti professionisti capaci, intelligenti, che al tuo nascere e per molti anni si sono appassionati a esprimere in questo nuovo mezzo di comunicazione un progetto culturale per il nostro paese, allora ancora diviso tra nord e sud, industria e campagna, modernizzazione e tradizione. Sarebbe bello che tu parlassi qualche volta, nelle tue trasmissioni per il cinquantesimo, di queste persone che hanno fatto la tv, compreso anche il gruppo degli ingegneri e dei tecnici che correndo su e giù per l’Italia, con generosità e talento hanno realizzato tutti i collegamenti che hanno permesso la diffusione del segnale televisivo sul nostro territorio tanto accidentato: un’avventura di cui si parla troppo poco. E mi piacerebbe che oltre ai soliti, pur prestigiosi, spettacoli di varietà di cui spesso vediamo gli spezzoni più riusciti, venissero riproposti al pubblico di oggi, in prima serata, anche i grandi sceneggiati; i tanti gialli, da Nero Wolf , al Commissario Maigret; il repertorio teatrale, trasposto nel linguaggio televisivo; e anche quello operistico, portato in tv con un impegno creativo e tecnico non indifferente. E sarebbe importante rivedere varie serie di documentari, di Virgilio Sabel, di Sergio Zavoli; e anche, perché no, alcune rubriche, come Il controfagotto, di Gregoretti, Specchio segreto, di Nanni Loi. Problemi di Auditel? Forse, ma con presentazioni accattivanti e vivaci i risultati potrebbe- ro essere una sorpresa. Perché non provare?. Questo scriverei alla Rai, se fosse una persona, mentre è quell’industria complessa e fortemente strutturata che ben conosciamo. Considerando a volo d’uccello lo sviluppo della tv in Italia, possiamo riconoscere, in questi cinquant’anni, alcune tappe. L’inizio, caratterizzato dall’ingresso di un centinaio di giovani, selezionati con tre concorsi nazionali (e dopo d’allora nulla di simile si è più fatto!), è stato il periodo delle sperimentazioni e della creatività: i moltissimi programmi inventati allora hanno costituito un serbatoio di idee cui si attinge ancora oggi. Molto si è detto sulla prima televisione. Certo è stata voluta come strumento di promozione culturale da dirigenti provenienti per lo più dalle file del mondo cattolico, ma, come ha scritto uno dei direttori di allora, Pier Emilio Gennarini, non si voleva una tv fatta soltanto di cattolici: si aveva in mente che la tv italiana doveva rispecchiare, a livello popolare di comunicazione di massa, la tradizione storica e culturale del paese e, in questa tradizione, la ricca eredità cristiana (Televisione: la provvisoria identità italiana, a cura di Bettettini e Grasso, 1985). Aldo Grasso (Storia della televisione italiana, 1992) sintetizza così: La Rai è stata anche la più grande e innovativa industria culturale italiana. In questo periodo si inseriscono quattordici anni di Ettore Bernabei, direttore generale, che operò la grande espansione del mezzo televisivo (con lui i giornalisti salgono da 130 a 700), aprì la seconda rete Rai, e curò l’accumulazione del patrimonio di professionalità che ha permesso alla Rai di mantenere, negli anni, una programmazione di buon livello. Nel 1975 inizia la seconda tappa della televisione. Viene approvata la legge che vuole assicurare maggiore pluralismo e maggiore obbiettività al servizio pubblico, aprendo alle diverse tendenze politiche l’utilizzo delle reti Rai. Da questa legge nascerà nel ’78 la terza rete, affidata al Pci, mentre la seconda è data al Partito socialista e la prima rimane alla Dc. Questo ordinamento, voluto per consentire maggiore democraticità, porterà però, a breve, a una forte ideologizzazione di molte trasmissioni, e, insieme, a una competitività interna che finirà con l’abbassare il livello complessivo dei programmi. Ricordiamo, nel 1976, la nascita di Domenica in”, il programma-fiume che vive tutt’oggi; di L’altra domenica, di Arbore e Barendson, che si pone come il primo programma di varietà innovativo che avrà un seguito nelle future fortunatissime trasmissioni di Arbore (e, arrivando ai nostri giorni, di Fabio Fazio); di Odeon, di Giordani e Ravel, che apre la tv a tutto quanto fa spettacolo, uno slogan che ha finito per condizionare tutta la tv. È del ’77 l’inizio ufficiale della tv a colori mentre, dopo la prima sentenza del ’76 della Corte costituzionale, si apre la strada all’apertura di stazioni radiofoniche e televisive da parte di iniziative private. Una strada che porterà, con movimentate vicende, all’assorbimento da parte di Silvio Berlusconi di molte reti private che si verranno via via a formare, fino a che, nell’84 con le tre reti Mediaset, si compie il suo disegno di essere l’unico concorrente della Rai. È di questi anni il progressivo aumento delle ore di programmazione, che arriveranno alle 24 ore su 24. Drive in, dell’84 segna l’inizio della volgarità intrecciata a battute, ritmo e trovate, e aprirà la strada alla tv di oggi. Antonio Ricci, il suo autore, diventa l’uomo spettacolo della Fininvest, mentre in Rai continua il dominio di Pippo Baudo, dominio che gli sarà tolto, come autore, da Michele Guardì. Con l’introduzione dell’Auditel come metodo di rilevazione dell’ascolto televisivo, inizia la terza fase della tv, che continua fino a noi (e fino a quando?). Anche se non mancano programmi decorosi, come le fiction a tematica religiosa della Lux Vide, o i programmi di Enzo Biagi, o le inchieste di Report, non dimentichiamo che qui nascono i vari Crème caramel, i Ciao Darwin e tutta la televisione che molti hanno ormai definito come spazzatura. Signore e arbitro, l’Auditel inchioda i programmisti ai dati numerici, visto che ormai la tv vende ai pubblicitari il numero degli spettatori, per ottenere i loro miliardi. Che dire, ancora, della tv? Occorrerebbe a questo punto allargare il discorso sulla società intera. La tv, cioè la Rai, televisione pubblica, ha cessato ormai da tempo di elaborare un progetto a lungo termine, culturale, di contenuti. Tutto si confeziona con l’attenzione al risultato immediato, mercificato. Questo avviene in tutte le televisioni; ma in Francia, in Germania, in Spagna, esiste forse una cultura generale di maggiore spessore, che permette anche una offerta culturale di buono e ottimo livello, unita a una – diciamo così – buona educazione diffusa, che limita le trasgressioni, le cadute di gusto, le intemperanze di casa nostra. Eppure, l’Italia è il paese più bello del mondo, lo sappiamo, e la nostra gente è ricca di inventiva, cordialità, e di tante altre virtù che molti ci riconoscono. Basterà allora, per concludere, rientrare un poco in noi stessi, per produrre ed esigere una tv che rappresenti i valori, le tradizioni, i gusti le aspirazioni in cui ci riconosciamo? O dovremo, forse, crescere anche nel rispetto verso gli altri, in una convivenza più armoniosa e nella ricerca di tematiche, stili, proposte innovative?

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