Capodarco, un modello creato in un mese

L’avventura di Franco Monterubbianesi, prete di frontiera che si è impegnato per l’integrazione e la promozione dei disabili, dando vita alla Comunità di Capodarco, dove nei giorni scorsi si è svolto il X Forum della campagna "Sbilanciamoci!"
comunità di capodarco

Nei giorni scorsi la comunità di Capodarco di Fermo ha ospitato il X Forum della campagna "Sbilanciamoci!", dal titolo "Cambio di rotta – Uscire dalla crisi e cambiare l’Italia e l’Europa". Un appuntamento importante, per "superare la recessione economica, per non ripetere gli errori del passato, senza perdere di vista l’ambiente e la giustizia sociale". Ma com'è nata questa Comunità? Ne parliamo con il fondatore, don Franco Monterubbianesi.

Chi lo conosce non si meraviglierà se riprendiamo le tante definizioni che sono state date di lui: sognatore, caotico, vulcanico, antischematico, testardo, fedele. Forse dovremmo chiedere altri aggettivi al vocabolario per arrivare sempre più prossimi alla vera identità di questo irriducibile (ne ho aggiunto uno io) prete che ha pure un’altra qualità insista nel nome della sua città di nascita, Fermo. Quella terra di storia, di natura e di imprenditori quali le Marche. E in qualche modo questo imprenditore dello spirito e dell’iniziativa sociale è proprio figlio di questa terra.

Oggi, mai domo, lo puoi trovare nella bella esperienza di eccellenza della Cooperativa agricola sociale Capodarco di Grottaferrata, in un ampio studio pieno di carte, libri e appunti, a triangolo tra l’Abbazia di San Nilo, la valle Marciana che domina Roma e gli ampi spazi coltivati biologicamente di quella realtà che da decenni produce e dà speranza a tanti.
Uno sguardo fuggevole non riuscirà a notare in questo stanzone una speciale scultura di legno, posta al muro: due mani unite che racchiudono quell’Uomo-Dio, nelle forme eucaristiche, che don Franco, all’età di vent’anni decise di seguire, lasciando quell’altro grande desiderio, diventare medico, tra mille peripezie e con un briciolo di anticonformismo.

Dopo alcuni viaggi a Lourdes, nel Natale del 1966, lui e un piccolo gruppo di tredici persone disabili hanno deciso di cominciare l'avventura di una vita in comune in una vecchia villa abbandonata che dominava l’Adriatico di Porto San Giorgio, a Capodarco di Fermo.

Rapidamente molti altri ragazzi e ragazze volontari e altri giovani disabili hanno scelto di vivere in comunità. Dai tredici membri iniziali si è passati agli oltre cento del 1970. Dopo pochi anni la comunità ha assunto una dimensione nazionale. Sono nate le Comunità di Sestu (Sardegna), Fabriano, Gubbio, Udine, Lamezia Terme, Roma.

«Il clima intorno ai disabili in quegli anni era terribile: si predicava la sofferenza – esordisce Don Franco – però ideologizzata. Per me, giovane prete, loro non erano malati, ma disabili che vivevano la condizione del limite, ma non della malattia. Il limite, lo sappiamo, può essere il valore da cui iniziare. Inoltre nella società degli anni Sessanta non c’era posto per le loro reali esigenze: la riabilitazione è cominciata faticosamente con l’istituto Don Gnocchi e con l’Aias. Prima solo istituzioni chiuse, ricoveri, istituti… Erano dei senza diritti, con in più questo pesante aspetto dolorifico».

Non è stato semplice comprendere la decisione di un prete, che peraltro insegnava in seminario, di intraprendere questa strada. «Un giorno in cui avevo chiara la mia decisione tirai fuori dalla tasca il progetto – ricorda don Franco – e dissi al mio vescovo: “Eccellenza, mi lasci lavorare qui”. Il vescovo rimase colpitissimo: “Ma questo non è stato mai fatto da nessuno”. Io mi sentii felice perché gli altri amici preti che mi conoscevano così intraprendente mi raccomandavano: “Don Franco lavora con la Chiesa”. Io non mi sono sentito un prete del dissenso, volevo rimanere nella Chiesa. Magari dissentivo dalle forme, non dalla sostanza».

Un inizio da pionieri e da avventurosi. «Sono andato dai miei alunni dell’Istituto industriale di Fermo ed ho chiesto loro di aiutarmi. Abbiamo cominciato a ripulire e ristrutturare la villa che era in abbandono da sei anni. Il riscaldamento era a pioggia – continua il fondatore della Comunità di Capodarco –, qualcosa di preistorico. Allo stesso tempo giravo l’Italia per organizzare il primo gruppetto. L’idea era di far nascere la comunità a Natale, nella casa nuova. C'è voluto un mese: è stata un’impresa, ma ci sono riuscito! I miei ragazzi dell’industriale venivano dopo scuola a lavorare, il "Corriere Piceno", un giornale locale di quel tempo, annunciava l’apertura della casa Papa Giovanni di Fermo. A Capodarco non conoscevo nessuno, a parte una signora che aveva il ristorante e che ci ha fatto da mangiare i primi giorni, perché non avevamo nemmeno organizzato la cucina. Mia mamma preparò il pranzo di Natale. I primi ospiti sono arrivati il 21 dicembre al mattino».

Ma dietro l’avventura vi è la ricerca costante di un vero modello e don Franco precisa. «È partita molto presto l’idea di fare ai giovani volontari che mi seguivano una proposta comunitaria. Alcuni venivano per una settimana e rimanevano di più, tipo un mio ex alunno, che ha lasciato i genitori ed è venuto a vivere con me. Nel frattempo si rafforzava l’esperienza di comunità: nel ’69, per esempio, venne l’Abbè Pierre a portarci il modello della Comunità Emmaus. Ma la nostra esperienza si ispirava al personalismo comunitario di Emanuel Mounier, per esempio, e soprattutto al profondo rinnovamento comunitario, anche del senso religioso, del Concilio di Papa Giovanni XXIII, a cui dedicammo, appunto, la prima struttura. Prendi, ad esempio, le nostre donne della cucina: erano terribili sotto tanti aspetti, però si donavano nel senso più profondo del termine, dando il meglio di sé».

Poi la scelta di approdare a Roma, anche per sfidare le istituzioni: «Venire a Roma era un po’ l’incontro con la dimensione politica. Noi avevamo fatto esperienze pilota. L’allora ministro della Sanità Ripamonti – segnala don Franco con un po’ di orgoglio – ci aveva riconosciuto come forma delle autogestioni: la legge 118/71, una delle prime  sull’handicap, porta traccia della nostra esperienza. Fummo riconosciuti come centro di recupero medico-sociale, articolato in comunità alloggio, una battaglia ancora aperta per farci riconoscere come una realtà riabilitativa in cui il disabile gestisce il suo futuro d’integrazione sociale. Negli stessi anni nascevano "esperienze- tipo", come il gruppo Abele, la Caritas di don Luigi Di Liegro a Roma, la Comunità di Sant'Egidio. Al famoso convegno del ’74 sui mali di Roma, organizzato dall’allora Vicario Cardinal Poletti, dalla diocesi romana, noi c’eravamo. Eravamo presenti nel territorio, animatori di tante battaglie come l’obiezione di coscienza, l’integrazione scolastica, la deistituzionalizzazione degli handicappati, non da soli, certamente, ma con la Caritas italiana, il Movi».

Dal 1994 don Franco ha lasciato la presidenza della comunità a don Vinicio Albanesi, di 13 anni più giovane, anch’egli marchigiano, che visse gli inizi avventurosi di Capodarco e che ha, altresì, ricoperto per anni la presidenza del Cnca – Coordinamento delle comunità d’accoglienza –, succedendo a don Ciotti. In tempi in cui è arduo lasciare le poltrone, è un nobile esempio!

La Comunità è attualmente presente, in Italia, in 14 città e 11 regioni; di essa fanno parte centinaia di persone tra comunitari, ragazzi impegnati nel servizio civile, operatori sociali, volontari. Recentemente la comunità si è allargata fuori dai confini nazionali, dando vita alla Comunità Internazionale di Capodarco (CICa), un'organizzazione non governativa di solidarietà, che si propone di dare risposte ai problemi dei poveri e degli emarginati di tutti i continenti: soprattutto in Ecuador, Guatemala e Albania, con l'attenzione prevalente ai disabili.

Oggi don Franco non ha smesso di sognare, ma con le braccia all’opera. Attualmente il suo impegno assiduo è per il "glocale": con i piedi piantati nella città e il cuore e la mente nel mondo. Un esempio è la grande manifestazione di “30 giorni con l’Africa”, con alcuni ragazzi della Costa d’Avorio e del Senegal, arrivati in provincia di Roma che gireranno decine di Paesi per testimoniare l’idea di un interdipendenza fattiva tra Europa e Africa. Oppure il “Bilancio Solidale Obiettivo 8”, con 7 comuni dei Castelli Romani e con la provincia di Roma. Inoltre, col ministro per la Cooperazione e l’Immigrazione, Andrea Riccardi, si vuole avviare il discorso di una Scuola della mondialità, che deve coinvolgere soprattutto i giovani universitari in un rapporto vero con l’Africa e l’America Latina.

Per festeggiare il suo compleanno cosa vorrà don Franco? «Vorrei avere una coscienza più nitida della mia storia, avere un pochino più sicurezza in quello che dico per poter aiutare. Spero che il Signore mi faccia diventare un po’ più saggio, e che questa saggezza sia anche forza, sia anche decisione, essendo radicale anche con me stesso, perché negli ultimi anni della vita di una persona ci si mette di fronte all’assoluto».

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons