Caos Libia. La responsabilità di chi sostiene le fazioni in guerra

Seconda parte dell’intervista ad Arturo Varvelli dell’Istituto per gli studi di politica internazionale sulla situazione esplosiva in Libia e il dibattito sull’intervento armato dell’Italia.
Libia e Isis. Chi fornisce le armi?

Continuiamo con la seconda parte dell’intervista rilasciata da Arturo Varvelli, grande esperto per l’Ispi, della questione libica che resta al centro delle preoccupazioni internazionali ma soprattutto dell'italia.Basta leggere cosa ha scritto, su Il Foglio del 20 febbraio, Giorgio Tonini, senatore e membro della segreteria del partito democratico: «noi italiani non dovremmo ignorare che viviamo nel posto più pericoloso del mondo, ai confini della Terza guerra mondiale» e quindi «abbiamo il diritto e il dovere, carta dell’Onu e articolo 11 della costituzione alla mano, di difenderci dall’incendio per impedirgli di estendersi fino a divorare anche noi».

Il prestigioso Istituto ha promosso lo scorso lunedì 23 febbraio all’Università Bocconi di Milano un seminario fortemente partecipato dal titolo molto chiaro: Italia- Libia. Cosa rischiamo e cosa possiamo fare.   I punti analizzati sono gli stessi al centro dell’intervista integrale concessa a cittanuova.it : “Qual è la reale presenza dell'IS in Libia? Quali le minacce per l'Italia? Che tipo di intervento è ipotizzabile? Cosa può fare il nostro paese per contribuire alla soluzione della lunga crisi libica?”

Secondo Edward Luttwak, lo stratega statunitense di origini romene molto presente sui nostri schermi televisivi, «bombardare non serve. C’è bisogno di un esercito partecipato da un ampio gruppo di Paesi. E che non abbia a che fare con l’Onu. Per pacificare la Libia serve una vera missione di combattimento, una forza imponente che disarmi tutti”. Con quali conseguenze?

«In questo caso si tratterebbe di peace enforcing e non di peace keeping , con la conseguenza di mettere in campo oltre  200 mila militari per controllare l’insieme degli armati tra le diverse  fazioni  che raggiungono in Libia un totale di 200 mila persone. Per essere efficace un intervento richiede un numero superiore  di soldati (almeno 300 mila per essere sicuri) con il rischio di riprodurre situazioni come quelle afghane e irachene dove la presenza massiccia di militari stranieri in queste terre, per 11 anni in Iraq e 20 in Afghanistan, ha prodotto una situazione di instabilità con la creazione di sottoprodotti come l’Isis. Luttwak è, quanto meno, antistorico nel suo ragionamento».

Ma secondo Luttwak anche se dovese scomparire lo stato islamico verrebbe subito rimpiazzato “ perché il fenomeno vero è che stati nordafricani e mediorientali collassano. E se dovesse cadere anche l’Arabia Saudita, sarà caos vero”. Concorda con questa analisi?

«Il ragionamento non è insensato, ma il fatto è che ad un problema politico occorre saper dare una risposta politica mentre egli propone una soluzione militare: l’analisi può essere corretta ma è la strategia ad essere sbagliata. Non esiste una soluzione semplice e immediata. Nel caso della Libia dobbiamo rassegnarci, con realismo, ad avere una situazione instabile per un lungo periodo, cioè per decenni se vediamo le cose in una prospettiva storica, perché nessuno ha la bacchetta magica. Bisogna quindi rassegnarsi a contenere gli effetti negativi di tale instabilità sapendo che l’intervento armato avrebbe solo come conseguenza di aggravare i rischi della situazione instabile»

E quindi quale intervento politico andrebbe operato ora? La mediazione di Prodi come è stato balenato in questi giorni?

«Con tutto il rispetto non credo che una figura singola pur così autorevole sia in grado di far meglio dei diplomatici attenti come il nostro ambasciatore in Libia, Buccino, che è stato in quel Paese fino alla settimana scorsa e conosce bene i rapporti di forza esistenti. Occorre invece, un atto di diplomazia a livello internazionale per indurre le diverse potenze regionali che stanno appoggiando le diverse fazioni in lotta a trovare un punto denominatore comune. Senza un accordo tra Egitto, Turchia, Emirati Arabi, Qatar, Arabia Saudita, con il concorso di Stati Uniti e Paesi Europei, l’instabilità e la violenza sono destinate a durare».

Come a dire che la soluzione si trova fuori dalla Libia?

«In buona parte si trova dalla Libia e certo contano le nostre dichiarazioni, perché se una fazione si trova ad essere appoggiata contro le altre non vorrà mai trovare un punto di mediazione e di pace. Non bisogna fornirgli pretesti per non stringersi le mani».

E circa la fornitura di armamenti?

«Il paese è pieno di armi che stanno alimentando il conflitto in altre zone, Palestina, Sinai, Sud Sudan, Mali con conseguenze disastrose. Non possiamo puntare verso una escalation della situazione. L’Egitto sta fornendo armi, aerei ad Haftar e questa è la conseguenza della perdita della capacità di influenza degli Usa. L’Egitto non ha alcuna remora ad agire senza subire alcun condizionamento degli Stati Uniti che, infatti, hanno condannato i bombardamenti da parte di Haftar ma è il quadro geopolitico generale che sta cambiando. La Libia non è più così di primaria attenzione per gli Usa, l’asse si sta ormai spostando verso l’Asia e comunque è altro dal quadrante siriano-iracheno, mentre il fronte libico è sicuramente una nostra aerea di primario interesse. Potremmo anche pensare di dare il via a bombardamenti mirati verso le aree controllate dal Daesh (nome più corretto di Isis,ndr) ma con le conseguenze di alimentare la propaganda e suscitare conseguenti reazioni come il ricompattamento tra forze islamiste radicali presenti in Libia ma tra loro rivali (l’Isis non è la fazione prevalente)

Aveva ragione quindi lo storico Angelo Del Boca quando ha preconizzato che la fine di Gheddafi avrebbe portato una situazione somala (stato fallito, territorio senza governo) alle porte dell’Italia?

«Il rischio è questo e pensavo si potesse evitare perché, a differenza della Somalia che, tutto sommato, ha uno scarso interesse strategico. La Libia è a noi vicina e tutti sapevamo che il Paese si sarebbe sfasciato con la caduta del regime di Gheddafi perché non aveva un forte legame nazionale. Un processo di balcanizzazione tipico di ricerca di nuove e antiche identità quando la tenuta è assicurata solo dalla forza dittatoriale».

Ma allora, prevedendo tutto ciò, perché è stato concesso il via libera alla politica francese di Sarkozy nel 2011?

«Bisogna contestualizzare il periodo e tornare a quel clima di forte retorica a favore dei processi di democratizzazione annunciati con le “primavere” arabe che non si sono rivelate tali. Occorre tener presente le ragioni offerte da consiglieri del presidente francese, come Bernard Henri Levi, di diventare “mèntori” di tale processo di democratizzazione dell’area, con la conseguenza di ottenere, come riconoscimento, un ruolo strategico nuovo per la Francia, assieme a benefici di carattere politico ed economico (petrolio e non solo, ndr).

Facendo saltare gli accordi già esistenti dell’Italia quindi …

«Sulla Libia c’è una lunga storia di rivalità tra Francia e Italia, dalla guerra del Ciad in poi, all’aereo di Ustica e così via».

E l’Eni come si trova in questa situazione

«Per il momento se la sta cavando meglio delle altre compagnie petrolifere, sempre con grandi riduzioni di proventi. Resta garantita la produzione offshore e le infrastrutture Green Stream che da Meliah, in Libia, portano il gas a Gela (in Sicilia) perché poste il controllo dei berberi. Esiste un radicamento italiano sul territorio e una lunga storia di rapporti con i signori locali, ma non è detto che continui così in futuro».  

 

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