Canada, il futuro è qui

Paese aperto, cosmopolita e secolarizzato. Novità, sfide e prospettive. Maria Voce a Toronto e Montréal. Lasciando una consegna.
Veduta della skyline di Toronto

Canada, benvenuti nel futuro. In un soffio ci si trova a quasi 350 metri d’altezza, tra lo spavento e l’ebbrezza. Gli ascensori in vetro salgono velocemente lungo la parete esterna da cui si inizia ad ammirare il panorama di Toronto. Siamo sulla CN Tower, che non sta per Città Nuova, e garantiamo non essere proprietà del nostro gruppo editoriale. Più modestamente prende il nome da Canadian National, il consorzio delle ferrovie. Alta complessivamente 553 metri, è la seconda struttura più elevata del mondo e dispone di un riquadro del pavimento in robusto vetro su cui i turisti più ardimentosi si cimentano in una breve camminata: sotto il vuoto.

Ecco da quassù Toronto, una metropoli di quasi cinque milioni di abitanti con isole di grattacieli nelle zone centrali e poi distese di case a due piani lungo strade dritte. Ma il futuro non è questo. E non sta nemmeno nella solida economia del Paese, membro del G8, che ha risentito solo lievemente della crisi finanziaria internazionale. Il futuro non sta neppure nelle opportunità dell’immenso territorio – secondo più grande Paese al mondo dopo la Russia, cinque ore e mezzo di fuso orario tra la costa atlantica e quella pacifica della nazione –, dato che il 90 per cento dei 34 milioni di canadesi abita concentrato in una fascia di territorio larga appena 160 chilometri che corre lungo il confine con gli Stati Uniti.

 

Se invece si passa a considerare che il Canada è composto per il 41 per cento da immigrati provenienti da oltre 150 Paesi, allora è più facile capire che questa gente vive già la condizione futura delle nazioni più ricche, meta degli inevitabili flussi migratori. Con la differenza che qui – anche per le favorevoli condizioni – la legge sull’immigrazione ha da tempo aperto le frontiere ai cittadini provenienti da Paesi non europei. La decisione ha favorito un processo cosmopolita della società, consentendo «non solo una coabitazione tra diversi – ci viene spiegato –, ma una crescente integrazione tra popolazione locale e nuovi arrivati, senza che questi debbano nascondere origini e tradizioni e perciò stesso sentendosi pienamente canadesi, perché accolti».

«Più che il melting pot Usa, qui stiamo dando vita ad un mosaico, dove le diverse provenienze stanno arricchendo e definendo identità e fisionomia canadesi», ci chiarisce mons. Thomas Collins, arcivescovo di Toronto. Melting pot, letteralmente “crogiuolo”, è la metafora con cui si indica l’amalgama di cittadini che costituisce il popolo statunitense. «Nella città la messa domenicale è celebrata in 37 lingue in seguito alla presenza di immigrati», prosegue il presule. Gente coraggiosa, che qui ricomincia da zero ed è spesso carica di sofferenza, come i rifugiati.

Verso l’ondata migratoria si manifesta, comunque, anche insofferenza. Soprattutto nel Québec, dove vigono norme che salvaguardano lingua e cultura francesi, mentre il referendum sull’indipendenza dal Canada è stato vinto dai “no” con un risicato margine dello 0,8 per cento.

 

Proprio l’accoglienza e il fattore cosmopolita hanno colpito Maria Voce, guida dei Focolari, in visita con il co-presidente Giancarlo Faletti alle comunità locali del movimento. È la prima visita di una presidente, cosicché l’arrivo, il 16 marzo scorso, è stato festeggiato con il calore e la consapevolezza di un momento a suo modo storico.

In Canada Maria Voce ha sostato solo all’est, recandosi a Toronto e a Montréal, ma ha incontrato rappresentanze delle comunità focolarine di tutto il Paese, i giovani (all’insegna della beata Chiara Luce Badano) e un gruppo di vescovi, tra cui il card. Turcotte, di Montréal.

Il futuro qui ha pure i connotati di un’aggressiva secolarizzazione. Con punte che, in Québec, raggiungono il parossismo: il diffuso quotidiano di Montréal, La Presse, ha pubblicato in prima pagina qualche anno fa, nella festa di san Valentino, l’appassionato racconto di una donna, titolato “Ho salvato un uomo”, in cui riferiva di aver conquistato e riportato sulla retta via un signore, o meglio, un sacerdote della Chiesa cattolica. Una scelta di pessimo gusto anche dal punto di vista redazionale, ma questo è il clima: la pratica religiosa è passata dall’80 al 10 per cento; la Chiesa gestiva scuole e ospedali che adesso sono controllati dallo Stato.

 

I cristiani battezzati sono ancora il 75 per cento dei canadesi (44 per cento, cattolici), ma la cultura dominante ha abiurato le radici religiose. Il divorzio è al 40 per cento, l’aborto al 30 – con l’aggravante che una donna può praticarlo per qualsiasi motivo e in qualunque momento della gravidanza –, mentre sono in discussione leggi in favore dell’eutanasia. Dal 2005 è invece in vigore la norma che riconosce il matrimonio di coppie dello stesso sesso.

Ulteriori espressioni del laicismo sono la crescente esclusione della religione dalla sfera pubblica e dall’educazione, la grande intolleranza dei mezzi d’informazione verso la fede e le opinioni dei credenti, la messa in questione, da parte di tribunali, dei diritti fondamentali della libertà religiosa e di coscienza. Gli abusi sessuali di sacerdoti su minori riscontrati negli ultimi 15 anni hanno fornito argomenti contro la Chiesa cattolica canadese.

 

Come uscire, si domandano i vescovi, da questa situazione di minorità? La vitalità e la rinnovata fede arrivate con gli immigrati che riempiono le chiese e rinverdiscono la vita parrocchiale sono la provvidenziale risposta dei fatti.

«Cosa fare di più e di meglio?», è stato chiesto a Maria Voce da Focolari locali. Qui il carisma dell’unità è presente da oltre 40 anni con le più diverse attività e iniziative, dove pure il dialogo ecumenico, interreligioso e con chi non ha riferimenti spirituali va crescendo. Ma il contesto sta rapidamente mutando. Maria Voce, sorriso rassicurante e apertura al nuovo, ha invitato a far tesoro di quanto si sta qui vivendo in anticipo rispetto al resto del mondo. «Dio ha mandato doni e segni per questo tipo di società e ci chiede di essere testimoni del suo amore in ogni ambiente», ha premesso, fornendo poi indicazioni che riportiamo nell’intervista di seguito.

 

 

Siamo nati per questo tempo

 

«Davvero una bella sorpresa il popolo canadese, così aperto, capace di accogliere il nuovo, non vincolato a tradizioni e a formule precostituite», commenta Maria Voce, al termine della sua permanenza nel Paese nordamericano.

 

Anche i Focolari in Canada, rispetto al movimento nel resto del mondo, sono una sorta di laboratorio d’avanguardia?

«Senza dubbio è un laboratorio. Del resto siamo nel Nuovo Mondo, dove c’è novità di vita. Anche il movimento ha scoperto qui questa novità e non ha paura delle nuove sfide, perché sente di essere nato per esse e di portare qualcosa di nuovo. I Focolari nel mondo scopriranno che si può costruire la famiglia soprannaturale al di là delle differenze anche su un territorio così vasto senza che vi sia la necessità di essere tutti insieme».

 

Anche in altri Paesi però le distanze sono grandi.

«Sì, ma qui le comunità non solo si ritrovano della stessa vita, ma vivono legami famigliari. Lo sviluppo dei mass media, Skype, ad esempio, favorisce i legami, ma penso che per i canadesi sia dovuto al fatto che sono un popolo nato da viaggiatori, da persone abituate ad affrontare gli ostacoli senza appoggi con la madre patria troppo lontana. Per questo, guardando al movimento in Canada, ho parlato delle comunità come di punti luminosi, legati tra loro da una tessitura di unità».

 

Una delle grandi problematiche, qui, è il secolarismo dominante. Cosa ha consigliato alle comunità dei Focolari?

«Ho ricordato che il movimento ha in sé una grazia che è stata inviata da Dio in vista della situazione attuale. Dio non manda un dono se non serve. Il fatto che i Focolari abbiano un’accentuata dimensione comunitaria – che si esprime in tutte le nostre presenze negli ambienti con la spiritualità d’unità – è proprio ciò che può ridare l’anima ad un mondo secolarizzato. Questa società, che non vuol più sentire parlare di Chiesa, non può però chiudere l’accesso alle persone che convivono in essa e che fanno l’esperienza di una comunione che porta ovunque la presenza di Dio».

 

Quasi che Dio raggiunga le persone lì dove si trovano?

«Proprio così. Accostare Dio all’umanità di oggi è un compito della Chiesa, ma lo esprime e lo svolge attraverso un dono che Dio le ha fatto in questo tempo, che è anche quello del nostro movimento. Chiara Lubich parlava di “piccole chiese” in riferimento alla presenza dei Focolari durante il comunismo nell’Europa dell’Est».

 

Pensa a qualcosa di analogo per oggi?

«Le piccole chiese sono legate alla promessa di Gesù “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Le piccole chiese combattono il laicismo non opponendosi frontalmente ma immettendosi nel mondo laicizzato e facendo fiorire quella spiritualità che ogni uomo cerca, perché la comunione è il desiderio di ogni uomo. Noi siamo nati per questo. La sfida di questo tempo, perciò, non ci può fermare. Anzi, ci stuzzica per vivere meglio quello che siamo».

 

Una strategia condivisa nell’incontro con i vescovi?

«Il tema è stato la spiritualità di comunione ed è emersa una sintonia tra il loro desiderio di portare Dio al popolo loro affidato e il riconoscere che hanno un dono specifico per questa missione pure nei Focolari. Ho percepito grande stima e gratitudine e anche motivo di speranza per la nostra presenza».

Paolo Lòriga

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