Camminando camminando

Era stato Lois, un mio amico della Val Badia, a parlarmi di un originale pellegrinaggio che si svolge ogni tre anni in quella valle. Rimasi incuriosito, fra l’altro, dal fatto che i partecipanti sono tutti maschi: dai saggi anziani con la barba bianca ai giovanissimi, dai più assidui in chiesa a quelli che la frequentano soltanto nelle ricorrenze più importanti. Tutti mossi però da un qualcosa di profondo che li attirava verso l’abbazia di Chiusa. La marcia si svolge in fila, a coppie; ad ognuno è assegnata una precisa posizione che manterrà rigorosamente fino alla fine. Durante le dieci ore al giorno di cammino per un centinaio di chilometri, la preghiera è costante nello sgranare il rosario, e il canto ininterrotto. Il grande pellegrinaggio dei la- dini, che i pellegrini chiamano Jì en Jeunn (andare in Sabiona), fa parte della storia di questa abbazia. Le radici di questa tradizione risalgono al 1503, stando ai documenti ritrovati; ma sembra che i ladini abbiano iniziato questo pellegrinaggio già nel 1338 per impetrare la liberazione dall’invasione delle cavallette e dalla peste che perduravano da anni. Dopo una pausa, durante il periodo napoleonico, queste processioni sono state riprese con una nuova motivazione: andare a ringraziare della fede ricevuta. Il pellegrinaggio si tiene verso la metà del mese di giugno, quan- do i contadini non hanno ancora cominciato il lavoro duro nei campi. Ogni famiglia cerca di partecipare con almeno un pellegrino, ciò che è ritenuto di buon auspicio per il raccolto. Nel descrivermi con entusiasmo la sua esperienza, Lois mi ha convinto a far parte almeno una volta di questo originale popolo: volevo capire cosa spinga ciascuno a fare tre giorni di faticoso cammino con qualsiasi condizione meteorologica (qualche volta sui passi o sui sentieri più impervi si trova ancora la neve, mentre durante i giorni più caldi, sulla strada che dalla Val di Funes porta a Chiusa, sotto i piedi l’asfalto diventa rovente). Finalmente l’8 giugno, data fissata per la partenza. Zaino in spalla, mi sono unito ai 1046 partecipanti di quest’anno in partenza per Sabiona. Il tempo prometteva bello per tutti e tre i giorni, e così è stato. Fin da subito ho notato l’armonia, l’ordine e la puntualità con cui si riprendeva il cammino dopo ogni sosta. Silenziosamente e in modo composto tutti occupavano in brevissimo tempo la loro precisa posizione dietro al Cunfarun, lo stendardo che durante il percorso precede il lunghissimo serpentone dei pellegrini. Lungo i sentieri dei boschi o le strade asfaltate l’eco continuo delle preghiere mia faceva pensare all’incessante susseguirsi di onde poderose. Con commozione costatavo la fede profonda di questo popolo ladino. Unici momenti per scambiare qualche parola le brevi soste, o alla sera nei vari alloggi. Sfruttando queste occasioni, ho cominciato ad avvicinare qualcuno della folla. Tra gli altri due ultraottantenni, Pire e Sisto, volti limpidi e occhi pieni di luce. Dal 1948 non sono mai mancati ad un pellegrinaggio. Quest’anno, a dire il vero, abbiamo fatto un po’ più di fatica… ma fin quando abbiamo la forza continuiamo. Per noi sono momenti in cui ringraziare Dio di tutti i doni che ci ha dato nella vita. Dopo di loro, ho famigliarizzato con Diego, Dennis e Michele, poco più che ventenni e un sorriso a trecentosessanta gradi. Sono stati spinti, hanno detto, dal desiderio di poter fare un’esperienza ecclesiale in un contesto così particolare e con generazioni diverse. Per due di loro era la seconda volta: erano ritornati invitando un amico a condividere la gioia che caratterizza questo percorso. Per alcuni ragazzini, invece, poco più che dodicenni, accompagnati dal papà o da qualche parente, partecipare era quasi un gioco, una sfida nel misurarsi con un tragitto così lungo. Naturale che fosse così, data l’età; dai loro sguardi però coglievo qualcosa che sarebbe durato nel tempo. E poi Isidoro, guida alpina: per lui la differenza rispetto a una semplice escursione consisteva nel fatto che qui si aggiungevano una motivazione spirituale e il fare un cammino del genere più per gli altri che per sé stessi, rappresentando chi non poteva partecipare o non stava bene: di qui la pace e la gioia sperimentate. E a proposito della figura del compagno cui si è legati per tutto il tempo del viaggio? Isidoro la vedeva come un’occasione per rafforzare il rapporto con un compaesano, come pure con altri con i quali la conoscenza si limitava ad un breve saluto. Questi momenti di preghiera ma anche di festa creano quell’atmosfera per darci il coraggio di togliere certi rancori che a volte ristagnano fra di noi. Carlo, 76 anni, al decimo pellegrinaggio, pur di partecipare si era tolto il gesso per un infortunio al ginocchio prima del tempo, verificandone poi la tenuta con l’aiuto di due bastoncini. Il coraggio non gli è certo mancato ed eccolo lì a esprimermi la propria gioia. Anche per Ivo di Pedraces, 42 anni e mio compagno di cammino, queste sono le vere gioie, quelle che rimangono e nessuno ti può togliere . Dalla condivisione di una parte della nostra vita è nata una amicizia che penso durerà nel tempo. Hansjörg partecipava per ringraziare del dono della fede: è una cosa che sempre devo chiedere e rinnovare, con la quale trovo la forza di affrontare la vita quotidiana. Poco prima dell’arrivo a Sabiona, si sono uditi i primi rintocchi della campana. Quella che aspettava non era semplicemente una folla di curiosi che si accalcava alle transenne, senza partecipare emotivamente all’evento: lo si vedeva dagli occhi umidi di commozione di qualcuno, coinvolto dalla preghiera della quasi interminabile fila di uomini. All’arrivo, secondo un antico costume, la consegna a tutti di rametti di bosco che venivano infilati nei capelli o portati a casa negli zaini. Il momento era solenne, e la potenza dei canti dentro e fuori l’abbazia tale da farli udire fino al paese di Chiusa e in tutta la valle. Era un grande grazie corale che si alzava verso il cielo. A detta dei veterani, questo pellegrinaggio lascia anche in seguito tracce profonde, così intense e variegate sono le impressioni raccolte. Per molto tempo ci si sente diversi, come trasfigurati da un nuovo e particolare senso della vita. E questo avverto anch’io nello scrivere queste impressioni.

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