Camaldoli, un codice oltre il mito

La celebrazione degli 80anni l’impegno dei cattolici in politica ieri, oggi e soprattutto domani
Monastero di Camaldoli (fonte: Wikipedia)

Gli anniversari sono importanti per fare memoria e ricercare, secondo una fondata storiografia critica, cosa è avvenuto nel passato. Questo è il compito dello storico. E questo vale anche per il Codice di Camaldoli, che codice non fu ma un programma di intenti e impegno di quello che avrebbe potuto essere l’Italia post bellica dopo la sperata sconfitta del nazifascismo.

Il recente convegno promosso dalla Cei, la fondazione Camaldoli dei padri di San Romualdo e il settimanale Toscana oggi ha voluto presentare uno studio aggiornato e completo del documento e rileggere il Codice alla luce della recente storiografia, indagandone fonti e motivi di ispirazione, evidenziare i collegamenti con le dinamiche della teologia e della filosofia del tempo. Gli storici e i giuristi che vi hanno partecipato hanno ripercorso l’itinerario biografico e intellettuale delle personalità coinvolte nel suo allestimento, ma si sono anche interrogati sulla capacità progettuale dei cattolici d’Italia e sul ruolo che essi hanno svolto e possono continuare a svolgere per una matura e consapevole partecipazione alla vita civile e politica del Paese.

Il Codice di Camaldoli fu un programma appunto di intellettuali cattolici giovani e coraggiosi, alcuni già inseriti nel sistema economico e culturale, ma che dal fascismo erano stati emarginati. Sottotraccia però e prima della lotta resistenziale avevano preparato, attraverso l’impegno culturale, meno controllabile da un regime in difficoltà e sempre più sbandato e succube dell’alleato nazista, il dopo. Una cultura politica quella cattolica, così come le altre socialista, comunista, liberale e azionista, era stata sostenuta sottotraccia prima e poi in maniera palese da Pio XI e poi Pio XII, e vivificata dalla visione di mons. Montini e mons. Bernareggi; ma aveva nei suoi laici cattolici, Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, Paolo Emilio Taviani e poi ancora Guido Gonella, Angela Gotelli, Giorgio La Pira, Aldo Moro e altri ancora i riferimenti di una passione per l’Italia nuova, libera e democratica che riprendeva la lezione sturziana e si univa alle idee ricostruttive di Alcide De Gasperi e la riflessione dei cattolici sociali e comunisti, così come quelli neo guelfi.

Il grande protagonista del Codice fu Sergio Paronetto. Ebbe una vita breve ma intensa: nacque a Morbegno in Valtellina nel 1911, morì nel 1945, ma in quei pochi anni riuscì a lasciare un segno. Iscritto alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI) coordinata dall’allora Mons. Montini, inizia un percorso critico nei confronti dell’associazione cattolica fino ad allontanarsene. Entra a far parte dello staff dell’IRI, istituto per la Ricostruzione Industriale, lavora accanto a Donato Menichella, poi Governatore della Banca d’Italia e al presidente Beneduce. Si indirizza su due filoni di attività, la ricostruzione di Finsider e Finmare e la riforma bancaria che porta la data del 1934. Paronetto inizia un percorso di studio sulle tematiche economiche ed in particolare sull’intervento statale nell’economia di mercato, molto verosimilmente su le basi scientifiche keynesiane. È proprio in quel periodo che getta il seme dell’iniziativa delle settimane di studio a Camaldoli dove poi nel 1943 verrà stilato il Codice che prende nome da quel Convento e che porta il suo imprinting. È una sorta di decalogo, sia pure in sette Titoli, permeato di un mix di economia di mercato e di controllo statale per una più equa ripartizione dei redditi alla ricerca dell’equilibrio tra libertà imprenditoriale e giustizia sociale. Da qui la generale convinzione che esso resti il fulcro della Dottrina Cristina nella politica e nell’agire sociale.

Nella temperie della guerra e come gruppo di minoranza, in una Italia però ancora cattolica di cultura e tradizione, i giovani fucini e laureati contribuirono, partendo da Camaldoli ha riscrivere la storia. Nel suo messaggio al convegno di studi svoltosi a Camaldoli nel fine settimana per celebrare appunto quello storico appuntamento il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha nobilitato l’incontro con la sua presenza, nel messaggio inviato prima dell’assise ha ripercorso il quadro storico che hanno portato alla redazione del documento: «Quando un regime dittatoriale, come quello fascista, giunge al suo disfacimento, a provocarlo non sono tanto le sconfitte militari, quanto la perdita definitiva di ogni fiducia da parte della popolazione, che misura sulla propria vita il divario tra la realtà e le dichiarazioni trionfalistiche. Si apriva, in quei giorni, una transizione, a colmare la quale la tradizionale dirigenza monarchica palesa tutta la sua pochezza, dopo il colpevole tradimento delle libertà garantite dallo Statuto Albertino. In quel luglio 1943, nel momento in cui il suolo della Patria viene invaso dalle truppe ancora nemiche, mentre il Terzo Reich si trasforma rapidamente da alleato in potenza occupante, entrano in gioco le forze sane della nazione, oppresse nel ventennio della dittatura. La lunga vigilia coltivata da coloro che non si riconoscevano nel regime trova sbocco, anche intellettuale, nella preparazione del ‘dopo’, del momento in cui l’Italia sarebbe nuovamente risorta alla libertà, con la successiva scelta dell’ordinamento repubblicano».

Il segretario di Stato il Cardinale Pietro Parolin nella messa conclusiva a Camaldoli ha sottolineato: «Il Regno dei cieli è impastato con la nostra vicenda, la nostra storia, la nostra vicenda personale. La santità di Dio è essere là dove c’è morte, insignificanza, male». Invita i cristiani a resistere al male perseverando nella fede e auspica un coinvolgimento pieno dei laici nella crescita della democrazia. «Il vero problema è resistere al male e perseverare nella fede senza cercare accomodanti scorciatoie. Il messianismo di Gesù non è politico, non tende a esprimere un potere mondano». Vede il Regno nella storia «come scarto, contraddizione, nascondimento. Quello di Gesù è un messianismo della persona, non è un’utopia. Pensarlo come utopia è stato una delle contraddizioni storiche che la cristianità ha sopportato». Aggiunge: dopo il 25 luglio 1943 ci si rese conto che «il male si era manifestato nel cuore dell’Europa, aveva coperto con una densa oscurità il nostro Paese ed era penetrato in noi». Si deve guardare al «Codice di Camaldoli» come a una «iniziativa necessaria» perché «eravamo dentro la catastrofe del fascismo e della guerra, alla vigilia della costituzione di quel che sarà il partito cattolico. Oggi c’è una situazione geopolitica totalmente diversa, un’inopinata guerra nel cuore dell’Europa sembra voler ravvivare macabre nostalgie totalitarie». La situazione ecclesiale è totalmente diversa, grazie al Concilio Vaticano II: «Oggi sperimentiamo una svolta antropologica che mette in discussione la fede stessa». Occorre un accurato discernimento per comprendere la storia in atto e l’esigenza di elaborare una cultura adeguata. Come Zuppi, Parolin auspica un aumento dei luoghi di incontro, formazione e riflessione su temi civili e sociali, ma anche su quelli della fede. Molto diretto e sincero il cardinale Matteo Zuppi , presidente della Cei ha voluto indicare come sia necessario colmare “il divorzio” tra politica e cultura, a lavorare per sanare una “democrazia infragilita” diffidando da una “politica epidermica”, con poche visioni e segnata da interessi modesti ma molto polarizzati. «Dobbiamo constatare che la pace non è mai un bene perpetuo neanche in Europa. Questa consapevolezza dovrebbe muoverci a responsabilità e decisioni!», il suo auspicio. Insomma a distanza di ottant’anni il documento presenta parti superate, concetti ancora molto validi sul tema dei diritti, il lavoro, l’economia, l’ordinamento politico, i corpi intermedi, ma soprattutto un impianto culturale che oggi è confuso anche tra i credenti impegnati in politica. Oltre il mito che gli storici smonteranno resta lo spirito e l’impegno di un piccolo ma ramificato gruppo che fu all’origine di un progetto storico di cui l’Italia repubblicana avrebbe beneficiato per più di cinquant’anni.

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