Burkina Faso: deposto Kaboré. Perché un colpo di stato?

Ancora un colpo di stato, il quarto in 18 mesi, in Africa Occidentale, questa volta in Burkina Faso. Nella regione è in corso una complessa transizione politica delle alleanze. E l’espansione del jihadismo di al Qaeda e dello Stato Islamico non si ferma. È tempo di farsi delle domande.
Persone festeggiano e inneggiano al colonnello Paul Henri Sandaogo Damiba dopo il colpo di stato che ha portato alla deposizione di Roch Kaboré in Burkina Faso. Foto Ap.

Dopo il colpo di stato militare a Ouagadougou del 24 gennaio, il presidente spodestato del “Paese degli uomini integri”, Roch Kaboré, non è riapparso né ha parlato pubblicamente. I cospiratori, guidati dal colonnetto Paul Henri Sandaogo Damiba, hanno affermato che il loro colpo di stato è avvenuto “senza spargimento di sangue e senza alcuna violenza fisica contro le persone arrestate e trattenute in un luogo sicuro”. Centinaia di persone a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, hanno festeggiato per strada dopo che i militari hanno preso il potere.

La cacciata del presidente Roch Kaboré è stata sconvolgente ma non inaspettata, ma è il quarto colpo di stato in Africa Occidentale negli ultimi 18 mesi, il più alto nella regione in quattro decenni. Il problema non riguarda solo il Burkina Faso. Anche Mali, Guinea e Ciad sono nel mezzo di complesse transizioni politiche e sotto la pressione di istituzioni regionali che cercano anche di mantenere il controllo. Quali sono le conseguenze politiche e gli impatti sub-regionali dei colpi di stato del 2021 in Africa occidentale?

Il vicino Mali ha visto due interventi militari nello stesso periodo, alimentati dalle preoccupazioni per l’incapacità di affrontare la crescente violenza islamista. Come in Mali, in Burkina Faso la rimozione di Kaboré è stata innescata dal crescente malcontento tra le forze di sicurezza per il presunto fallimento del presidente nel sostenerle adeguatamente contro i militanti legati sia ad al-Qaeda che al gruppo dello Stato Islamico.

Domande e analisi continuano a fluire da tutte le direzioni.  Le alleanze con le potenze occidentali, in particolare con la Francia, e con i leader dei Paesi vicini si stanno sciogliendo. Nuovi partner, in particolare la Russia, si stanno facendo avanti per riempire il vuoto. E la comunità internazionale è preoccupata per come questo cambiamento potrebbe ostacolare la lotta contro una delle insurrezioni islamiste in più rapida crescita al mondo.

Ci si domanda ancora: dopo i golpisti del Mali, anche quelli del Burkina Faso saranno pesantemente sanzionati dall’Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale? L’organizzazione ha infatti condannato con forza il colpo di stato militare che ha rovesciato il presidente Kaboré.

Tuttavia, le decisioni dell’Ecowas del 9 gennaio scorso contro la giunta al potere a Bamako, in Mali, sono state accolte in modo tutt’altro che unanime. E il 14 gennaio i maliani sono scesi in piazza a migliaia, dopo che la giunta militare ha promosso delle proteste contro le severe sanzioni imposte dall’Ecowas per lo slittamento delle elezioni. Nella capitale, sono state migliaia le persone che indossando i colori nazionali, rosso, giallo e verde, si sono riunite aderendo alla manifestazione indetta dal governo militare.

Secondo Elimane Haby Kane, presidente dell’Ong Legs-Africa (dove Legs sta per Leadership, Etica, Governance e Strategie) e ricercatore senegalese, il fatto che il popolo maliano si sia ribellato contro la decisione dell’Ecowas rappresenta un messaggio forte rivolto ai governi e alle istituzioni regionali e internazionali: “Queste istituzioni – ha detto Haby Kane – sono scollegate dal popolo. Sono istituzioni dei capi di stato e dei governi, ma non ancora del popolo”.

Analogamente, a Ouagadougou è stata organizzata una manifestazione a sostegno dei golpisti. Il raduno si è tenuto a Place de la Nation, nel centro della capitale, dove la folla si è radunata in risposta all’appello del movimento Sauvons le Burkina Faso. Per gli organizzatori di questa manifestazione si trattava di mostrare alla comunità internazionale che i burkinabè si considerano “un popolo sovrano e libero”.

Elimane Haby Kane vede in questo sentimento popolare il desiderio di essere ascoltati e lancia un appello ai politici del continente ed ai loro partner internazionili, quello di riconsiderare il processo democratico nei loro Paesi: “costruire la loro democrazia sui modelli in sintonia con la vita sociale dei loro popoli”. E questi modelli sono esistiti in passato. E cita come esempio la Carta di Mandé del 1236. Iscritta nel 2009 dall’Unesco nella “Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale immateriale dell’Umanità”, la Carta di Mandè è stata spesso brandita dai suoi sostenitori come prova che l’Africa dei diritti umani e della giustizia sociale ha una propria e antica identità.

Questa visione trova un’eco nelle riflessioni del politologo nigeriano Nicholas D.U. Onyewu circa i nuovi problemi teorici e su un approccio diverso ai temi politici in Africa, sostenendo tra l’altro che:  “Per l’africano, ciò che conta non è la funzione formale assegnata ad un’istituzione dal suo nome, ma le fasi del flusso della politica a cui l’istituzione e il suo personale contribuiscono. Se cerchiamo prima le istituzioni e poi chiediamo quali funzioni svolgono, potremmo trarne un quadro meno completo del mondo africano di quello che avremmo identificando prima il processo politico e poi chiedendoci quali sottosistemi contribuiscono alle sue varie ramificazioni”. Che cosa succederà dopo? Difficile dirlo, i popoli continuano a scrivere la loro storia… attraverso le loro vicende!”.

 

 

 

 

 

 

 

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