Abbiamo bisogno di una economia civile

Quest’anno sono i 250 anni dalla pubblicazione delle Lezioni di Economia Civile di Antonio Genovesi, il più importante trattato della tradizione dell’Economia civile

Quest’anno sono i 250 anni dalla pubblicazione delle Lezioni di Economia Civile di Antonio Genovesi, il più importante trattato della tradizione dell’Economia civile. Gli anniversari sono utili se consentono di andare indietro per andare avanti, come nel gioco del rugby. Tornare a Genovesi potrebbe consentire all’Italia e all’Europa di oggi di andare davvero avanti, e nella direzione giusta.

Antonio Genovesi nasce il 1° novembre 1713 a Castiglione (oggi Castiglione del Genovesi), piccolo paese a 8 miglia da Salerno, e muore a Napoli nel 1769. Nel 1736 fu ordinato prete, e l’anno seguente si spostò a Napoli, dove pochi anni dopo iniziò a insegnare metafisica nella Università dove insegnava Vico. Per alcune accuse di eresia ebbe problemi con le autorità ecclesiastiche del tempo e con i teologi napoletani, e per questo dovette passare dapprima all’insegnamento della logica (disciplina teologicamente meno controversa), e, infine, nel 1754 all’economia, divenendo il primo cattedratico di economia in Europa, in cattedra privata, nei pressi di Napoli.

Riguardo la persona di Genovesi, il suo illustre allievo e primo biografo Galanti scrive: «La fautrice Natura, che destinato l’avea a gran cose, oltre all’averlo fatto grande della persona, e di corpo bellissimo, e quanto alcun altro esser potesse, di amabile e avvenente figura, conceduto ancora gli avea sanità robusta, maniere costumate ed eleganti, e il talento tanto prezioso quanto singolare di comunicare con nettezza e con grazia i suoi pensieri.

A sì fortunate disposizioni accoppiò vasta memoria, dritto intendimento, animo grande; e ciò, ch’è più raro, genio elevato e diverso da quelli dei savi ordinari, i quali non pensano, e non ragionano, se non se sulle idee degli altri».

La lingua che Genovesi scelse per le sue lezioni fu l’italiano, perché, diceva, «scriverò dunque come penso, e parlerò come tra noi si parla, perché amo di essere inteso, non ammirato». Fu instancabile educatore, diffusore in mezzo al suo popolo della tecnica e delle scienze moderne, riformatore del sistema educativo, e grande docente. In uno dei suoi libri scritti “per gli giovinetti” – i destinatori dei suoi trattati –, scriveva: «Le scuole debbono servire a far teste per la Repubblica, non Grammatici, né Disputanti per gli Café: a far uomini pieni di senso di vera e soda pietà, di giustizia, di onestà, di amicizia, per istruire e reggere l’ignorante moltitudine».

Le difficoltà che Genovesi incontrò sul terreno teologico crearono un ostacolo al fiume delle sue idee, che deviò verso un letto meno controverso della teologia, l’economia, dove i riferimenti a Locke e Hume erano meno sospetti e meno importanti per la salvezza delle anime. Negli ultimi 15 anni della sua vita Genovesi si dedicò quasi esclusivamente alle materie economiche, dove eccelse e incontrò un riconoscimento universale. Al culmine della sua attività di studioso e di docente, scrisse le Lezioni, che sono una summa del suo pensiero e dell’intera Economia civile. In una lettera, così scriveva ad un amico: «Sto ora a far imprimere le mie Lezioni di commercio in due tometti. Raccomando l’opera alla Divina Provvidenza. Io sono oramai vecchio, né spero o pretendo nulla più dalla terra. Il mio fine sarebbe di vedere se potessi lasciare i miei Italiani un poco più illuminati che non gli ho trovati venendovi, e anche un poco meglio affetti alla virtù, la quale sola può essere la vera madre d’ogni bene. È inutile di pensare ad arte, commercio, a governo, se non si pensa di riformar la morale. Finché gli uomini troveranno il lor conto ad essere birbi, non bisogna aspettar gran cosa dalle fatiche metodiche. N’ho troppo esperienza». Sono molti i messaggi che Genovesi e le sue Lezioni lanciano all’Italia di oggi. Genovesi non ebbe paura di innovare rispetto alla tradizione, lo fece e ne subì anche i costi.

Ma aveva anche una chiara idea della vocazione della tradizione italiana: fu capace di innovare perché conosceva bene il genio della sua cultura. Anche oggi il bivio che abbiamo di fronte è chiaro: possiamo continuare a fare i “birbi” o diventare, finalmente, civili.

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