Binda, vittoria anche senza polvere

La Gazzetta dello sport dovette offrirgli 22.500 lire, tante ne spettavano al vincitore del Giro, perché non lo corresse. In quell’anno, era il 1930, la “509 spider”, lanciata sul mercato dalla Fiat, costava 15.000 lire. La cifra bastò a placare la sua rabbia. Binda aveva sbaragliato il campo, imponendo la sua superiorità in 4 edizioni su 5, a cominciare dal ’25, quando fu lui a sancire il tramonto di Giradengo: accompagnato dai segni premonitori del destino, che protegge i campioni, percorse 3000 chilometri senza forare, un miracolo con le strade di allora. I tifosi, l’anno prima, avevano già messo gli occhi addosso a quel ragazzo smilzo e taciturno e si erano dati di gomito vedendolo salire le svolte sterrate del Ghisallo nel Giro di Lombardia: era nato l’erede del campionissimo. Al suo secondo Giro, la rottura di un freno nella prima tappa, in discesa su Torino, sotto la pioggia, lo fece cadere: perse 30 minuti e si accontentò di aiutare l’amico rivale Brunero a far sua la corsa rosa. Alfredo Binda raccontava spesso questo episodio, episodio, come amava ricordare, con un certo orgoglio, l’edizione del ’27 in cui rimase in testa alla classifica dalla prima all’ultima tappa, pur facendo vistose concessioni ai suoi avversari. Dopo l’arrivo della tappa di Napoli si unì addirittura alla banda musicale suonando, con talento, la tromba: era risaputo che Alfredo era un buona cornetta nella banda di Cittiglio, il suo paese d’origine, nel varesotto. Nel ’29 segnò un altro record ancora oggi imbattuto: vinse otto tappe di seguito. Naturale che l’anno dopo nessuno volesse misurarsi con lui, divenuto “pedale proibito”: prima di offrirgli del denaro qualcuno aveva proposto, in alternativa, di farlo gareggiare ad handicap, con molti minuti di svantaggio o con una bici zavorrata. In totale fece sue 112 gare, fra cui 41 tappe della corsa rosa, record inseguito da Cipollini, che oggi ne vanta 40. Tre volte fu campione del mondo, mentre trionfò in due edizioni della Milano- Sanremo ed in 4 del Lombardia. Fu proprio in una edizione della corsa lombarda che si rese protagonista di un episodio finito nella leggenda: alla ricerca dell’alimentazione migliore mangiò 28 uova, preparate dalla mamma, sei, cotte, prima della partenza, le altre, crude, in corsa. La figura di Binda, ancora oggi, è di tale ampiezza da non poter venir ripiegata nel ricordo: regge a tutti paragoni possibili a distanza di tempo ed è forse questo il maggior miracolo che le si possa attribuire. Sarà anche perché il ciclismo cerca, oggi, a fa- dei sospetti sul doping e ritrovare il volto di sport eroico per eccellenza, che figure come quelle del trombettiere di Cittiglio risultano ai nostri occhi immortali. E non solo per la sua superiore forza fisica: fu Binda ad inventare in quegli anni la famosa “pedalata rotonda”, un termine che individua uno stile di pedalata, cheancora oggi si insegna alle giovani leve. Uno stile che era però anche nella figura e nei modi di chi lo interpretava: Alfredo Binda fu infatti il primo ad attirare sul ciclismo l’attenzione e il tifo delle donne. Nel ’36, dopo oltre un decennio di successi, appese la bici al chiodo, detronizzato da un atleta, anch’egli muratore d’origine, di cui pure ricorre il centenario, ma arrivato alle corse molto più avanti con gli anni, che era l’antitesi del campione “aristocratico”, in senso tecnico e in senso umano: Learco Guerra. Mantovano, subito definito il “corridore del popolo”, incarnò la figura dell’uomo invocato dai tifosi per demolire un despota: alla retorica della figura aveva la fortuna di poter accoppiare la retorica del nome. Che Binda, in seguito, giù dalla sella, dovesse diventare un comandante fu un fatto naturale. Fu l’unico capace di far coesistere Bartali e Coppi in due Tour: la sua classe, testimoniata in corsa, trovò conferma nel suo talento di direttore sportivo. Coppi stesso ammise che Binda “sarebbe stato un grandissimo diplomatico” e confessò di aver sorriso più volte “pensando a quello che doveva fare per dimostrare ai giornalisti che io e Bartali si andava in un certo senso d’accordo”. Bartali, dal canto suo, non dimenticò mai che, alla vigilia del Tour del ’48, che faceva tappa a Lourdes, Binda gli disse: “Un Tour che può essere vinto soltanto dal pio Gino”. Fu ancora Bartali a ricordare la commozione di Alfredo quando seppe che la vittoria di Bartali ad Aix-les- Bains fece cessare in Italia le dimostrazioni di piazza per l’attentato a Palmiro Togliatti. La terra di Francia, dove non ebbe grande fortuna come corridore, consacrò il suo talento di tecnico: quattro vittorie, una con Bartali e Nencini, due con Coppi. Quella stessa terra l’aveva accolto, all’inizio degli anni Venti, con il fratello Primo, in cerca di lavoro e di fortuna come stuccatore presso uno zio a Nizza. Primo aveva la passione per la bicicletta: Alfredo prese a fargli compagnia negli allenamenti e si accorse di andare più forte di lui.

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