Bielorussia: dalla protesta alla rivolta?

La Bielorussia è infiammata da proteste sempre più diffuse che coinvolgono diversi settori della popolazione, facendo traballare la posizione di Aleksandr Lukašenko, l’ultimo dittatore d’Europa
Proteste in Bielorussia (AP Photo/Sergei Grits)

 

La Bielorussia è percorsa dalle proteste che, all’indomani delle elezioni che hanno confermato per la sesta volta alla presidenza Aleksandr Lukašenko, al potere dal 1994, potrebbero portare il Paese verso una democratizzazione o, al contrario, verso un’ancora più rigorosa autocrazia. Lukašenko, che all’epoca sovietica era direttore di una fattoria collettiva, ha sempre soffocato ogni forma di protesta, incarcerato esponenti dell’opposizione e tenuto elezioni non giudicate libere ed eque dagli osservatori europei.

Nel passato, nonostante tutto, Lukašenko ha sempre ottenuto una maggioranza che gli ha permesso di restare alla guida del Paese. In questa occasione, invece, le elezioni presidenziali hanno visto emergere dei candidati alternativi popolari e sono cadute in un momento particolarmente delicato, a causa della riluttante risposta di Lukašenko alla pandemia di Covid-19, il costante declino dei redditi delle persone e la più ampia stagnazione politica. Già prima delle elezioni presidenziali, tenutesi il 9 agosto, sembrava che la direzione del vento stesse cambiando a Minsk.

Infatti, gli oppositori di Lukašenko avevano aggregato i consensi di larghe fette della popolazione bielorussa ma la risposta dell’ultimo tiranno d’Europa non si è fatta attendere: Viktor Babaryka e Siarhei Tsikhanouski (marito di Sviatlana Tsikhanouskaya e popolare blogger di YouTube, che inizialmente aveva in programma di candidarsi alla presidenza del Paese), sono poi finiti in carcere, mentre Valery Tsepkala è fuggito a Mosca con i suoi figli, temendo anch’egli il carcere e la privazione dei diritti parentali. In questo conteso si è palesata la candidatura alla presidenza di Sviatlana Tsikhanouskaya, principale rivale di Lukašenko, fuggita da qualche giorno in Lituania.

Tsepkalo aveva pianificato una serie di conferenze in Russia, Ucraina, Europa occidentale e Stati Uniti per esporre la vera natura del regime bielorusso, mentre sua moglie, Veronika Tsepkalo, è poi rimasta in Bielorussia per sostenere la campagna elettorale di Sviatlana Tsikhanouskaya che, candidamente, ha dichiarato di essersi trovata candidata quasi per caso ma di averlo fatto con convinzione dopo l’arresto del marito. Lukašenko non aveva permesso la registrazione di due dei candidati presidenziali più popolari, Viktar Babaryka e Valery Tsepkala, ma aveva invece consentito la registrazione di Sviatlana Tsikhanouskaya, forse ritenuta incapace di condurre una vera e propria campagna elettorale e di attrarre molti consensi poiché i membri principali della sua squadra erano stati arrestati.

Le proteste contro Lukašenko sono scoppiate fin dalla notte delle elezioni, coinvolgendo migliaia di cittadini convinti di un voto truccato. La repressione dell’autocrate di Minsk non si è fatta attendere ed è diventata sempre più brutale: respingimenti, arresti, violenze verso coloro che sono finiti in prigione. Le proteste stanno diventando via via delle vere e proprie rivolte che vedono addirittura dei militari rifiutarsi di obbedire agli ordini. Oramai la posizione di Lukašenko traballa, ma egli si è finora rifiutato di mettere in discussione l’esito delle elezioni, mostrandosi possibilista verso la concessione di una riforma della costituzione.

Come sempre, la questione è più complessa di quanto appare, poiché il mondo è proteso verso un ritorno a sfere d’influenza che pensavamo scomparse con la fine dell’Unione Sovietica. In realtà, la Russia di Vladimir Putin ha rilanciato la sua presenza geopolitica in aree tradizionalmente d’influenza sovietiche e, prima ancora, zariste: basti pensare alla crisi in Georgia nel 2008 ed alla crisi in Ucraina nel 2014, che ha portato all’annessione russa della Crimea. Proprio la questione ucraina mostra che un avvicinamento di Kiev all’Unione europea (UE) ed alla NATO non è accettabile da parte di Mosca. Recentemente, le relazioni tra la Bielorussia e la Russia sono state messe alla prova a causa del progetto di fusione tra i due Stati propugnato da Putin ed osteggiato da Lukašenko che, però, non può che rivolgersi al presidente russo per vedere garantita la sua leadership.

La risposta dell’UE non si è fatta attendere ed è giunta il 10 agosto, all’indomani delle elezioni. In una dichiarazione congiunta, Josep Borrell, Alto rappresentante per la politica estera dell’UE, e Olivér Várhelyi, Commissario per il vicinato e l’allargamento, hanno ricordato che «la notte delle elezioni è stata segnata da una violenza di stato sproporzionata e inaccettabile contro manifestanti pacifici», con la morte di un cittadino e centinaia di feriti. Essi, dunque, hanno condannato le violenze e chiesto il rilascio immediato di tutti i detenuti. Per questo, «le autorità bielorusse devono garantire il rispetto del diritto fondamentale di riunione pacifica. A seguito della loro mobilitazione senza precedenti per libere elezioni e la democrazia, il popolo bielorusso ora si aspetta che i propri voti vengano conteggiati accuratamente. È essenziale che la Commissione elettorale centrale pubblichi i risultati che riflettono la scelta del popolo bielorusso. Solo la difesa dei diritti umani, la democrazia e elezioni libere ed eque garantiranno stabilità e sovranità in Bielorussia», ripromettendosi di continuare a «seguire da vicino gli sviluppi al fine di valutare come plasmare ulteriormente la risposta e le relazioni dell’UE con la Bielorussia alla luce della situazione in via di sviluppo».

L’UE, al momento, oltre lanciare ammonimenti e applicare delle sanzioni economiche, in realtà non può fare altro. Infatti, i 27 Stati membri sono rintanati su posizioni differenti. In particolare, gli Stati membri dell’Europa dell’Est (ex-sovietici), in primis Polonia e Paesi baltici, vorrebbero una presa di posizione dura verso la Bielorussia, laddove la Grecia ha deciso di bloccare una dichiarazione comune dei 27 Stati membri, convinta che l’UE non la stia sostenendo adeguatamente nello scontro geopolitico in atto con la Turchia nel Mar Egeo, mentre altri leader europei sono attualmente presi dall’emergenza sanitaria del Covid-19 e dalla gestione della crisi socio-economica. Invece, essi potrebbero esercitare collettivamente, attraverso le istituzioni europee, un ruolo di mediazione che dovrebbe considerare, giustamente, che Paesi quali la Bielorussia e i già citati Ucraina e Georgia, sono e resteranno Stati di frontiera tra due spazi geopolitici e come tali andrebbero trattati.

Le sanzioni europee potrebbero inoltre essere inefficaci, perchè Lukašenko ha a lungo coltivato rapporti con partner influenti e facoltosi, come la Cina e gli stati arabi del Golfo Persico (in particolare gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e l’Arabia Saudita), che potrebbero diventare fonti alternative di sostegno internazionale e di investimenti nell’economia bielorussa.

In definitiva, il bandolo della matassa è nelle mani di Putin. Infatti, se il presidente russo ritenesse che un cambio di leadership a Minsk fosse ininfluente potrebbe abbandonare Lukašenko o, al contrario, continuare a sostenerlo, anche con l’uso della forza. Quindi, la Bielorussia potrebbe finire in una spirale di conflitto, come in Ucraina, oppure sperimentare una transizione di potere pacifica, come quella avvenuta in Armenia nel 2018.

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