Biden menerà nella Mena?

Middle East-North Africa, cioè “Mena”. È la regione più instabile del mondo, lasciata da Trump al suo successore in uno stato discretamente caotico. Anche perché se ne è in fondo spesso disinteressato. Che farà il democratico?
AP Photo/Carolyn Kaster

Difficile dire come si comporterà il nuovo presidente statunitense in politica estera. Si leggono più o meno dotte dissertazioni che affermano che Biden non cambierà politica verso la Cina, che l’Iran verrà riabilitato, che Israele non sarà più il “figlio prediletto”, che vi sarà meno intervenzionismo nei confronti della Turchia… Chissà, si vedrà se tali previsioni si riveleranno giuste, e in che grado. Quello che si sa è che l’approccio di Joe Biden e Kamala Harris nella regione Mena sarà dettato da due principi proclamati ripetutamente durante la campagna elettorale, e perseguiti da tutta o quasi la corrente democratica: un maggior multilateralismo e un minor antagonismo. Egualmente si sa che continuerà il disimpegno militare Usa nel mondo, e quindi anche in Medio Oriente e Nord Africa.

Detto questo, va ricordato che Donald Trump nella regione è sembrato avere come unica politica quella di fare esattamente l’opposto di quanto aveva tessuto Barack Obama col suo vice, ora presidente, e con il segretario di Stato John Kerry. All’inizio del suo mandato, in effetti, il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti aveva pronunciato in Egitto, all’università al-Azhar, un discorso definito allora “epocale”, in cui aveva affermato che «deve essere spezzata la catena di sospetti e inimicizia. Sono qui per cercare d’inaugurare una nuova epoca nei rapporti tra Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, un rapporto basato sul mutuo rispetto e su un interesse reciproco, fondato – soprattutto – sull’idea che Usa e Islam non siano incompatibili e non debbano per forza essere in competizione. Si sovrappongono, invece, condividendo principi comuni di giustizia, progresso, tolleranza e dignità per tutti gli esseri umani».

Obama, cioè, aveva cercato, talvolta un po’ idealisticamente o ingenuamente dimentico della storia più recente, di non sembrare amico degli uni (leggi Israele e Arabia Saudita e loro alleati) e nemico degli altri (leggi Iran e suoi alleati), ma di favorire nuovi equilibri che, nella sua opinione, avrebbero evitato guerre e curato malintesi secolari. Trump aveva ribaltato questa visione, santificando Israele e Arabia Saudita e demonizzando l’Iran. Tutti i suoi atti avevano come guida di fondo una tale visione manichea della regione Mena: trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, “Accordo del secolo” che favoriva gli israeliani e disperdeva i palestinesi mettendo fine alla politica del “due popoli due Stati”, ritiro americano dall’accordo Jcpoa per il nucleare iraniano, enormi quantità di armi a stelle e strisce acquistate dai sauditi e alleati, e, infine, normalizzazione delle relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, coi ben noti “Accordi di Abramo”.

Risultato? Conflittualità aumentata a dismisura, tre guerre che ancora imperversano in Siria, Libia e Yemen, un Libano in stato comatoso, una Turchia che fa le bizze, un Qatar ancora al bando dei sauditi, un Egitto dittatorialmente guidato da al-Sisi. Di che disperarsi. Il problema è che ora, muovendo anche solo un pione nello scacchiere mediorientale, tutta la scacchiera ne risulterebbe influenzata, talmente complicato è diventato il gioco.

Appare quindi verosimile che non vi saranno colpi di teatro, come il discorso di Obama in Egitto, e che Biden avrà come stella polare della sua politica il multilateralismo e il disimpegno militare nella regione. Che vorrà dire? Che gli accordi del nucleare iraniano non verranno immediatamente riabilitati dall’amministrazione Usa, ma vi saranno lenti passi di avvicinamento a Teheran e di sdrammatizzazione delle tensioni; che Israele continuerà a essere un alleato speciale degli Usa (le prime nomine di Biden sembrano confermarlo), ma non vi sarà più un appoggio incondizionato alle decisioni di Netanyahu, verosimilmente con un avvicinamento al probabile prossimo premier Ganz, che appare meno “fondamentalista”, e un ritorno alla vecchia posizione del “due popoli, due Stati”; che colui che era stato definito da Trump «il mio dittatore favorito», cioè al-Sisi, non avrà più un appoggio entusiasta di Washington; che in Libano si cercherà una conciliazione tra le varie fazioni in lotta per arrivare a un governo “potabile”; che per le tre guerre in corso gli Stati Uniti non interverranno certamente in modo diretto, perché i margini di manovra sono estremamente esigui, ma verranno fatte pressioni molto più accentuate sugli attori in campo per soluzioni negoziate.

Quel che è certo è che l’attenzione di Biden, come era stata quella di Trump d’altronde, non sarà posta prioritariamente sulla regione Mena, perché i dossier riguardanti la guerra commerciale con la Cina e la grave crisi d’identità della Nato (con la conseguente nuova attenzione verso un’Europa, invece negletta da Trump) saranno prioritari nell’agenda dell’amministrazione Biden.

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