Berlusconi e la rivoluzione liberale ancora in attesa

La "discesa in campo" del fondatore di Forza Italia ha riempito il vuoto della proposta politica alternativa alla sinistra postcomunista. Una proposta accolta con favore dagli elettori, rimediando a quell’assenza di dialettica maggioranza-minoranza che ha rappresentato una malattia del sistema democratico italiano
Berlusconi, al centro, all'assemblea generale di Confindustria. archivio storico 2005© Roberto Monaldo / LaPresse

Cosa ha rappresentato Silvio Berlusconi per la politica italiana? È una domanda che mi sono posto molto spesso in questi ultimi anni e, per ovvie ragioni, ancor più in questi ultimi giorni. Assistendo alle commemorazioni e leggendo le tante testimonianze, verrebbe da dire che Berlusconi è stato l’italiano più influente degli ultimi trent’anni.

Sia chi lo ha amato – politicamente parlando – sia chi lo ha combattuto e – diciamocelo – detestato, sempre per ragioni politiche, ma non solo, in questi giorni non ha potuto non ripercorrere, con la mente, le numerose tappe che hanno segnato il percorso esistenziale di un uomo che ha saputo imprimere la sua impronta in tutti i campi nei quali si è espresso: dell’edilizia all’editoria, dalla finanza al calcio, dallo spettacolo alla politica.

Proprio questo passaggio: dallo spettacolo alla politica, credo che sia una delle tante cifre che hanno caratterizzato il vissuto politico di Berlusconi e uno dei tratti attraverso i quali misurare il suo contributo alla modernizzazione dell’offerta politica presente nel nostro paese, senza voler dare alcun significato positivo o negativo al termine modernizzazione.

Sul punto dell’offerta politica, che si intreccia alla vicenda imprenditoriale televisiva e, più in generale, editoriale, vorrei tentare una breve riflessione perché ritengo che qui risieda il contributo di maggiore rilevo del personaggio politico Berlusconi, con tutti i suoi chiaroscuri.

Quando il pool di “Mani pulite” decise che fosse giunto il momento di porre fine – si fa per dire – alla malsana e corrotta politica clientelare che aveva caratterizzato buona parte della storia repubblicana, quantomeno tutto il decennio precedente( gli iconici anni Ottanta, con tutto il loro strascico di soubrette, paillette e improbabili abiti dai colori sgargianti) il panorama politico italiano si è ritrovato in una strana situazione.

L’unica offerta politica disponibile sul mercato elettorale era quella proveniente da un partito la cui ideologia e la cui pratica erano state sconfitte non dalla storia (espressione che non significa nulla), ma dalle donne e dagli uomini che quell’ideologia e quella pratica politica le avevano conosciute e subite sulla propria pelle; un’ideologia atea che predicava l’emancipazione del proletariato mediante la “dittatura” del partito comunista, abbattuta da un sindacato libero dei lavoratori, avente come simbolo la Madonna nera di Częstochowa: una incredibile eterogenei dei fini, forse la più significativa di tutti i tempi.

Ebbene, tra il 1992 e il 1994, la scena politica italiana si è ritrovata orfana di tutti quei partiti che, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, avevano presentato un’offerta politica alternativa a quella comunista, rivelatasi così disumana: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Repubblicano, Partito Liberale annientati, evaporati, dunque la loro offerta politica assente. L’incapacità dei post democristiani, riuniti nel redivivo Partito Popolare, rifondato da Mino Martinazzoli, e nel movimento di Mario Segni, di imbastire un’offerta politica alternativa a quella del PDS di Achille Occhetto, stava a dimostrare la profonda malattia del sistema democratico italiano: l’assenza di una dialettica maggioranza-minoranza che potesse esprimere un’opposizione degna dei processi democratici.

Se la salute di un regime democratico si misura in larga parte ricorrendo alla qualità dell’opposizione, bisogna riconoscere che, in quel frangente, al di là del nuovo partito della sinistra, nato dalle ceneri del Pci, l’offerta politica italiana, alternativa alla sinistra, non registrava nulla di particolarmente significativo; al di là delle migliori intenzioni di autentici galantuomini come Martinazzoli e Segni, s’intende.

La “discesa in campo” di Berlusconi rappresentò esattamente il tentativo di riempire quel vuoto. In questa sede non mi interessano le ragioni che portarono il nuovo partito, il partito di plastica, tutto sorrisi, slogan, doppiopetto e cravatte a pallini del suo leader, a vincere le elezioni del ’94 e a sconfiggere la “gioiosa macchina da guerra” del fronte dei “Progressisti”, ciò che mi interessa sottolineare è che Berlusconi, con un’offerta politica nuova,  Forza Italia, seppe suscitare una domanda politica inedita, più o meno latente, quella che forse non si sarebbe mai espressa se non avesse intercettato una simile offerta.

È l’offerta politica che è andata sotto il nome di “rivoluzione liberale”, di movimento “liberale di massa”, in un Paese in cui il liberalismo è sempre stato appannaggio di una ristretta classe di notabili. Per la prima volta, in Italia, il termine liberalismo ha incontrato quello di rivoluzione e di movimento, non più di partito o di classe, arroccati alla difesa di tradizioni e privilegi. A conti fatti, al di là del gradimento personale, sul fronte dell’analisi dei processi politici, bisogna riconoscere che, oltre a rappresentare una grande novità politico-culturale che ha segnato in maniera indelebile la vita politica del nostro Paese, condizionandone per sempre le culture politiche che esso esprime, quella “discesa in campo”, quella nuova offerta politica, ebbe il merito di suscitare una nuova domanda e la realizzazione di una salutare dialettica maggioranza-opposizione.

“Fu vera gloria?”, francamente non direi. Perché quella rivoluzione liberale dichiarata, sbandierata e da alcuni attesa non si è mai vista nella concretezza delle politiche pubbliche, credo che non sia mai neppure iniziata e forse non poteva andare diversamente.

Il liberale sceglie la concorrenza non canonizza il mercato, mentre Berlusconi viveva nel mercato, lo esaltava, ma lo occupava da oligopolista. Certamente ebbe il merito di rompere il monopolio della RAI, ma per sostituirlo con un duopolio, non certo con la concorrenza. Insomma, per molti che guardarono con interesse la “discesa in campo” di Berlusconi, ma soprattutto per coloro che non hanno mai riposto fiducia in quell’esperienza partitica, pur riconoscendone le ragioni, l’evoluzione della vicenda politica berlusconiana si è rivelata un fallimento per l’avanzamento delle buone ragioni del liberalismo in Italia e uno dei motivi per cui oggi è difficile recuperare quella bandiera e issarla ancora come simbolo di libertà, di inclusione e di emancipazione.

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