Bellini il serenissimo

Bellini il serenissimo
Un’arte mite, calma. Un cammino tenace che porta, fino all’ultima vecchiaia, a conquiste sempre nuove, graduali. Giovanni, pittore come il padre Jacopo, il fratello Gentile, il cognato Mantegna, abituato al lavoro d’équipe nella bottega veneziana, assimila il risultato altrui, ma trova la sua vena originale; senza disturbare o eccedere. Confrontando ad esempio le due tavole della Presentazione al tempio, la sua e quella di Andrea, simili nell’impostazione e nella tipologia dei personaggi, siamo in presenza di due mondi spirituali diversissimi: Mantegna crea un episodio classico di solitaria imperturbabilità, Giovanni insegue il sentimento, sfuma la luce sul volto mesto di Maria: il primo lavora per l’eternità, il secondo cerca il colloquio con noi, colmando la distanza fra la storia e l’oggi con una capacità di emozionare squisitamente lirica. Nelle Madonne, per la devozione pubblica e privata, che dipinge lungo i decenni, affronta una ricerca psicologica che conosce continue scoperte. Mai ripetitive. Giovanni è un pittore di trasparenza perfetta. La Madonna col bambino all’Accademia veneziana guarda, seduta in trono, il bimbo addormentato in grembo, gli occhi chiusi nella preghiera, modesta nell’affetto e nel colore delicato; un’altra volta egli la veste da popolana, o la pone sul davanzale a presentare il figlio che gioca; nella Madonna degli alberetti fa entrare uno squarcio di natura, due alberi, nell’intimità del rapporto fra madre e figlio, diritti davanti alla tenda in verde chiaro che gli fa da nicchia. Pochi artisti sono riusciti come lui a penetrare l’amore materno con tanta misurata commozione. La Madonna e il bambino fra due santi (Venezia, Accademia), bagnata frontalmente dalla luce, sta pensosa e raccolta, in una meditazione che la sembra distanziare dai due: è invece il centro di una sacra conversazione interiorizzata, di una condivisione di anime, modulate dal colore ora lucido ora denso che spazia poi sul paesaggio di case e monti lontani, all’orizzonte. Un senso di infinito, un respiro ampio ci prende, che parte dal gruppo sacro posto in alto, discende sul paese, come una dimensione celeste che spiana musicalmente su quella umana. Questo sentimento musicale del colore e della luce che investono la natura e le persone trova momenti di poesia e di spiritualità finissimi in alcune pale d’altare. Il battesimo di Cristo (Vicenza, Santa Corona) mostra come un evento evangelico trinitario venga risolto da Bellini in una costruzione ordinata e quieta. Al centro il Cristo, luminoso, in raccolto distacco, ai lati un Battista in ombra e tre angeli sulle cui vesti il colore gioca a riscaldarsi. L’evento fuori dal tempo si svolge in un’aurora radiosa, col sole che sta per sorgere dai monti azzurri e bruni. Sorge l’alba, e insieme un altro sole, che è il Cristo. Con tranquilla naturalezza realtà fisica e soprannaturale coincidono. C’è in Bellini infatti un sentimento amoroso per la natura che gliela fa vedere e ce la fa sentire un controcanto pulsante della vita umana e divina. Nella pala ogni gesto è calibrato, ma è lo slargo centrale – un vuoto – a racchiudere l’intensità del sacro. Sta qui l’intuizione acuta di Giovanni, che riesce così a legare i personaggi, apparentemente isolati, in una atmosfera di serena stabilità. Certo, c’e la lezione di Antonello e di Piero alle spalle. Giovanni però l’interpreta con un tatto psicologico tale da conferire il massimo della dignità ad ogni figura. Questa sottolineatura risulta evidente in uno dei suoi rari ritratti, quello del doge Loredan a Londra. Il doge guarda di tre quarti fuori dalla tavola, rivestito, sul fondo azzurro, di oro e damasco bianco, rivelati dalla precisione delle pennellate che ci fanno sentire lo splendore e la consistenza dei tessuti. Ma è nel volto di Loredan che Giovanni condensa la sua attenzione: un uomo grave, bello della vecchiaia ben vissuta, colpito da un raggio che ne illumina l’energia interna, ne dice il carattere, senza forzarne la riservatezza. Giovanni restituisce l’umanità al simbolo, come la rende alle figure della storia cristiana. Lo si scopre ancor meglio in un’opera della vecchiaia, del 1505, la Pala di san Zaccaria nella omonima chiesa veneziana. Anche se non presente in mostra, essa è uno di quei capolavori alla cui vista si rimane quasi perduti, tanta è la bellezza. Sotto la loggia aperta, tra quattro santi sta la Vergine in trono, mentre un angelo suona la viola. Qualcosa di impalpabile avvolge i corpi, i panneggi, l’ambiente, fa circolare l’ombra morbidamente sui colori smaltati. Essi diventano le parole della conversazione. Ai lati della tavola splendono squarci di paese, invasi da un lume che penetra dalla soglia nella loggia, esaltando la concentrazione di ogni personaggio. Giovanni lega terra e cielo con una tale misura e profondità spirituale che in tavole come questa bellezza e verità coincidono perfettamente, com’è del rinascimento cristiano. Quanto a lui, che muore quasi novantenne nel 1516, tra il cordoglio generale per l’uomo e l’artista, non smette di cercare. Dipinge il suo unico nudo femminile, una Donna allo specchio, con il pudore e la meraviglia ritrosa con cui aveva ritratto i più diversi sentimenti. La tela è un miracolo di poesia di rosa, azzurri, bianchi, di pulizia mentale. Giovanni regala a noi la gioia nascosta di un creatore capace di stupirsi ancora di un corpo vivo. Giovane, come lui.

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