Bellezza feriale, splendori di cielo

A Trento, la prima mostra antologica dedicata a Vittorio Melchiori, pittore e vetratista trentino da rivalutare
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Vittorio Melchiori, Polenta, formaggio e ciliegie, olio su tavola (foto dal sito della mostra)

Una luce morbida rivela, sopra un tavolo, porzioni di polenta gialla fra le pieghe di un canovaccio bianco. Spicca in primo piano una fronda di ciliegio con i suoi frutti rosseggianti, mentre dallo sfondo scuro emergono il coperchio di una pignatta e una brocca di vetro colma di vin rosso. A lungo mi soffermo a considerare questa natura morta che nella sua quotidianità mi parla di cucina, di cose semplici, di affetti familiari. Sembra quasi di avvertire il profumo di questa polenta offerta allo sguardo.

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Vittorio Melchiori, Gigli, olio su tavola (foto dal sito della mostra)

Passo alle successive nature morte: quadretti con fiori modesti (manca la rosa presuntuosa) dai colori non sgargianti, come timorosi di disturbare. Accarezza anch’essi una luce tenue che suscita misurati bagliori sulla superficie lucida dei vasi. Anche qui: intimità casalinghe, bellezza sobria, pacata, riposante. Non come quella sfacciatamente in mostra, come gridata. Bellezza feriale, apprezzata da chi non vive alla superficie.

Autore di queste ed altre opere di genere diverso (oltre sessanta tra dipinti, disegni, bozzetti e cartoni) è un pittore e vetratista trentino di cui è in corso al Museo Diocesano di Trento, fino al 24 gennaio 2023, una rassegna dal titolo Realtà e tradizione. L’arte di Vittorio Melchiori (1891-1951).

Chi era questo artista la cui opera, molto lodata in vita dai suoi contemporanei non tanto per lo stile innovativo, anzi saldamente ancorato alla tradizione, quanto per la maestria tecnica testimoniata da vetrate, affreschi e oli, finì per cadere nel pressoché totale disinteresse da parte della critica più recente?

Quasi autodidatta, desideroso di emanciparsi dalla sua condizione di artigiano e di aprirsi a nuovi orizzonti culturali, Melchiori fu attivo per più di un ventennio a Milano presso la rinomata ditta di vetrate artistiche diretta da Giovanni Beltrami, e in seguito a Trento, la sua città d’origine, nella bottega di Giuseppe Parisi situata nei fondaci di Palazzo Larcher, in pieno centro. Forse per la sua innata ritrosia, il giovane trentino faticò – soprattutto dopo l’ascesa del fascismo – ad affermarsi nel sistema del mercato d’arte italiano, anche a causa dell’ostruzionismo di molti colleghi, venendo a lungo etichettato come pittore di orientamento accademico sia nei numerosi dipinti a tema sacro e allegorico, sia nelle nature morte ispirate alla produzione del Seicento.

L’accademismo… ecco cosa ne diceva, riflettendo su poesia e bellezza, un grande filosofo del secolo scorso come Jacques Maritain: «È l’esatto pervertimento delle belle arti; l’arte crea in bellezza, non produce la bellezza come scopo di creazione o come cosa limitata in un genere. Un fabbro di campagna, se è dotato di sensibilità nello spirito e nelle mani, crea, obbedendo ad un istinto poetico, qualche cosa di molto più bello della maggior parte delle opere di cui sono capaci, abitualmente, i diligenti allievi delle nostre scuole moderne di Belle Arti».

Oggi però assistiamo una rivalutazione di quest’arte “ufficiale” e di non pochi suoi rappresentanti cosiddetti accademici, i quali, anche se non furono degli apripista in quanto si ispirarono alla tradizione, specializzandosi nella riproduzione fedele del reale, produssero spesso opere tutt’altro che irrilevanti.

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Vittorio Melchiori, Autoritratto, 1922, olio su tela (foto dal sito della mostra)

Tra costoro può essere annoverato senz’altro Vittorio Melchiori. E la mostra in questione, la prima antologica a lui dedicata dalla terra che gli diede i natali, vuol essere un omaggio ad un artista ingiustamente caduto in oblio, che col suo linguaggio non moderno, ma sempre onesto e cristallino, sembrò pago di essere capito dal popolo.

Dalle sue austere nature morte si passa alla serie dei paesaggi immaginari o osservati en plein air, quindi ad opere più impegnate dove Melchiori, discostandosi dal filone veristico, manifesta una «tendenza al fantastico», che lo porta a «comporre allegoricamente il paesaggio e le figure». E a conclusione del percorso espositivo, quelle vetrate di chiesa dove luce e colore trionfano evocando splendori di cielo. Non potendo ovviamente essere trasferite in mostra, esse – almeno alcuni esempi – sono presentate in immagini proiettate insieme ai loro bozzetti. È qui forse, in questo assemblaggio di porzioni di vetro colorato in pasta, al fine di ottenere un mosaico luminoso, che Melchiori dà le sue prove più notevoli, in questi santi e sante nitidi e smaglianti, miti e assorti, nei quali l’autore, di carattere schivo e riflessivo, pare specchiarsi come in un ideale da raggiungere, lui che – è stato detto – condusse una vita di «esemplare semplicità» imperniata su «lavoro quotidiano, studio, disciplina volontaria, moderazione, ubbidienza francescana e timidezza sdegnosa».

E tale, infatti, lo si vede raffigurato nel composto Autoritratto in tenuta da pittore che dà il benvenuto ai visitatori della mostra.

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