Bartali, Giusto tra le nazioni

Trasportava tra Firenze e Assisi documenti falsi per aiutare cittadini ebrei a mettersi in salvo, nascondendoli nel telaio della sua bici. Lo Yad Vashem, l’ente israeliano per la Memoria della Shoah, ne riconosce l'impegno
Gino Bartali

Nella Toscana dei Mondiali di ciclismo 2013 irrompe Gino Bartali: campione assoluto delle due ruote, morto a Firenze il 5 maggio del 2000, è stato nominato “Giusto tra le nazioni" dallo Yad Vashem, museo dell’Olocausto di Gerusalemme, memoriale della Shoah.

L’ultimo traguardo di Ginettaccio ha il sapore della leggenda, quella colma di orgoglio, degna di onore e immortalità: porta l’orgoglio toscano di un campione schivo e burbero, dai polmoni e dall’animo smisurati, fino ad Israele, con un motivo a dir poco nobile.

«Cattolico devoto, nel corso dell’occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’arcivescovo della città Elia Dalla Costa: questa rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito dell’occupazione tedesca e all’avvio della deportazione degli ebrei, ha salvato centinaia di ebrei locali ed ebrei rifugiati», si legge nelle motivazioni rese note.

In quei tempi oscuri, Bartali agì «come corriere della rete, nascondendo falsi documenti e carte nella sua bicicletta e trasportandoli attraverso le città, tutto con la scusa che si stava allenando». «Una cosa magnifica – ha commentato il figlio Andrea – e saperlo proprio quando a Firenze si svolgono i Mondiali di ciclismo ha un significato enorme».

Campione dalla fede immarcescibile, forgiata anche da una precoce adesione all’Azione cattolica e all’appartenenza ai terziari carmelitani, Ginettaccio strinse legami anche con papa Pio XII, Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira. Eppure era «uomo semplice – chiosa il presidente dello Yad Vashem, Avner Shalev – che ha fatto cose straordinarie, in contrasto netto con la vasta maggioranza degli altri».

Qualche amante delle statistiche ha affermato che in carriera Ginettaccio, già premiato con la medaglia d’oro al valore nel 2006, abbia coperto in sella a una bicicletta circa 700 mila chilometri. Pochi tuttavia sanno che, tra tutte le tappe, la più straordinaria fu senza dubbio una Firenze-Assisi andata e ritorno, tra l’ottobre del 1943 e il giugno 1944, quando Bartali divorò il selciato almeno una quarantina di volte per trarre in salvo gli ebrei in clandestinità.

Una tappa da trecentottanta chilometri in una sola giornata per portare nella città di San Francesco documenti segreti ricevuti dal cardinale Dalla Costa che avrebbero salvato gli ebrei rifugiati da padre Rufino Niccacci. Gesta eroiche, raccontate nel libro dello scrittore e regista Alex Ramati Assisi underground (titolo dell’omonimo film), per una tappa rimasta a lungo taciuta per espressa volontà del corridore.

«Certe cose si fanno e basta. Io voglio essere ricordato per le mie imprese sportive e non come un eroe di guerra… Mi sono limitato a fare ciò che sapevo fare meglio: andare in bicicletta», espresse al figlio Andrea, che le ha rese note solo recentemente.

Fuoriclasse anche fuori dal tracciato, pur sempre in sella, Bartali aveva già vinto due edizioni del Giro d’Italia nel 1936 e nel 1937 (il terzo nel ’46), il Tour de France del '38 (unico ciclista al mondo a rivincere la Grand Boucle a dieci anni di distanza, nel '48).

Eppure a noi piace ricordare quell’incredibile corsa verso il cuore dell’Umbria, cominciata alle 6.30 del mattino, dopo aver partecipato alla messa. Un tracciato colmo di insidie, peraltro non l’unico, dato che i suoi  viaggi gli erano già costati tre giorni di carcere e il suo nome era da tempo nelle liste dell’Ovra, la quale aveva messo alle sue calcagna una spia, che riferiva: «Tipo molto strano questo Bartali che ad ogni vittoria ringrazia sempre Dio e la Madonna invece di dedicare il successo al nostro Duce».

C’è allora di più di una doppia vittoria nelle Milano-Sanremo: ad Assisi, al convento delle clarisse di San Quirico, dove neanche i saraceni avevano osato, le due suore di clausura Eleonora e Alfonsina testimoniarono la sua più grande vittoria, rifocillandolo sfinito ma colmo di gioia. Ginettaccio usava spesso dire «è tutto da rifare», da buon brontolone fiorentino, eppure tutto quel che poteva fare lo fece: senza la sua corsa contro la fatica, 800 ebrei non avrebbero neanche sognato di poter cambiare la loro vita. Grazie campione, eroe italiano.

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