Bangladesh: mezzo secolo di storia

Il 17 dicembre scorso il Bangladesh ha festeggiato mezzo secolo di vita. Pochi, forse nessuno, almeno in Occidente, se ne sono accorti. Solo alcune riviste missionarie ne hanno parlato*.
Bangladesh (AP Photo/A.M.Ahad)

Sembra che la “terra dei bengalesi” – questo significa il termine Bangladesh – non interessi molto a livello internazionale. Eppure, elemento ignorato da molti, il Bangladesh è uno dei Paesi con il più alto numero di musulmani al mondo, un islam assai diverso da quello che fa parte dell’immaginario occidentale.

Infatti, la tradizione musulmana si è qui inserita nell’identità culturale e sociale del Bengala, un mondo a sè anche nel contesto del sub-continente indiano. I bengalesi sono un popolo dolce, portato alla riflessione, capace di sopportare sofferenze e contrarietà senza fine. Anche in Bangladesh si guarda con una certa preoccupazione ad infiltrazioni islamiste.

Ma torniamo alla ricorrenza del cinquantesimo dell’indipendenza. Non è stato un processo indolore. Nel 1947, al tempo della separazione del sub-continente in India e Pakistan, il Bangladesh come Paese non esisteva ancora. Il Pakistan creato a tavolino era una nazione divisa dall’India, secondo la discriminante religiosa, e al suo interno, in Pakistan Occidentale e Orientale. In mezzo ai due Pakistan c’erano, infatti, migliaia di chilometri di territorio indiano. Una bomba a orologeria pronta ad esplodere da un momento all’altro. Soprattutto l’India non ha mai sopportato in quei due decenni di essere di fatto stretta fra le due parti di un Paese considerato nemico.

Per questo appoggiò quella guerra di indipendenza del Bangladesh che costò la vita a tre milioni di persone. In effetti, per più di vent’anni la parte bengalese del Pakistan non solo era stata governata da un’amministrazione a migliaia di chilometri di distanza, ma era anche fortemente discriminata a favore del Punjab pakistano e della sua cultura.

Quella guerra era nata, quindi, da un senso di risentimento covato per due decenni, arrivato a voler imporre persino la lingua urdu (parlata nella parte occidentale del Pakistan ma lontana anni luce dal bengalese e dalla sua cultura). L’India, con la scusa di difendere i diritti della ventina di milioni di indù, rimasti nella parte orientale del Pakistan, intervenne in modo deciso. A capo del movimento indipendentista dei “pakistani” bengalesi c’era Sheikh Mujibur Rahman, carismatico leader politico e culturale, considerato il padre della patria, fondatore dell’Awami League, bersaglio dell’esercito pakistano e di gruppi fondamentalisti islamici come il Jamaat-e-Islami.

Anche dopo l’indipendenza, il Paese non ha avuto vita e storia facile. Solo quattro anni più tardi (1975) Mujib e gran parte della sua famiglia furono uccisi e questo diede inizio a una lunga stagione di violenze e colpi stato. Basti pensare che, ancora oggi, il Paese asiatico vive nella tensione fra gli eredi, o meglio le eredi, del passato. L’attuale Primo Ministro, Sheikh Hasina, al suo terzo mandato, è, infatti, la figlia dello stesso fondatore dell’Awami League, mentre all’opposizione, continua la sua politica il Partito nazionalista bengalese (Bnp) guidato da Khaleda Zia, moglie di Ziaur Rahman che aveva governato il Bangladesh dal ’76 fino al suo assassinio nell’81. Un governo, quello di Rahman, non solo dittatoriale, ma appoggiato dall’allora nascente fondamentalismo islamico.

In questo mezzo secolo di storia, inoltre, la vita dei quasi duecento milioni di bangladeshi è stata spesso scandita da povertà endemica, disastri naturali e ondate di proteste popolari che periodicamente infiammano le piazze. Ne sono un esempio il movimento laico Shahbag, capace di accendere violenze popolari nel 2013, insieme ad attacchi a blogger e intellettuali liberali. Tutti, poi, ricordiamo gli attentati di matrice islamista che nel luglio 2016 uccisero, in un locale di Dhaka, venti persone (tra cui nove italiani).

Tutto questo dimostra la precarietà dell’equilibrio socio-politico di questo Paese dove la religione – o le religioni – giocano un ruolo fondamentale. Solo nei mesi scorsi, in occasione della festività indù del Durga Pooja, particolarmente cara a tutti i bengalesi, si sono verificati assalti contro cittadini indù. Ci sono state sette vittime e molti edifici sono stati dati alle fiamme. Sono emersi legami fra alcuni gruppi militanti formatisi in Bangladesh negli anni Novanta e sedicenti “studenti coranici” afghani, che avevano sostenuto nella guerra contro l’occupazione sovietica. Per questo si guarda con grande preoccupazione al recente ritorno dei talebani a Kabul.

Esiste, tuttavia, anche una serie di tentativi di chiudere con il passato ed i suoi retaggi per poter dar vita ad un Paese «liberale, pluralista e davvero democratico». Animatore di questa tendenza è Anupam Debashis Roy. Classe 1997, nato in una famiglia indù, appena sedicenne Anupam decise di impegnarsi nell’attivismo sociomediatico. I suoi video satirici pubblicati sul web in cui affrontava apertamente alcuni temi scottanti, come le turbolente relazioni con il grande vicino indiano, divennero rapidamente virali. In questi anni Roy, che nel 2017 ha creato una piattaforma di mobilitazione civile chiamata Muktiforum e l’anno scorso ha pubblicato un libro dedicato alle strategie per il cambiamento politico, è diventato molto noto nel Paese.

«La mia generazione è cresciuta respirando una narrazione polarizzata della guerra di liberazione, che oppone secolaristi e islamisti. Ma noi vogliamo una “seconda guerra di liberazione”, che ci affranchi dall’autoritarismo e dalla corruzione della classe dirigente e ci garantisca giustizia sociale e libertà di espressione», afferma l’attivista, che personifica una nuova generazione che fa sperare in un futuro diverso.

 

*Cf. per esempio: C. Zappa, «Bangladesh: 50 anni turbolenti», Mondo e Missione, 12 dicembre 2021. (https://www.mondoemissione.it/?s=bangladesh)

 

 

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