Bandiera bianca o tappeto rosso

In Belgio è stata presentata una proposta di legge che vorrebbe eliminare i malati di mente. L’intento dichiarato dei promotori potrebbe apparire molto nobile: fare quello che i malati stessi chiederebbero se potessero capire la triste situazione in cui sono costretti a vivere, togliendo un peso alla società. Sono tendenze, queste, che purtroppo vanno ormai diffondendosi un po’ in tutta Europa. Le inquietudini sollevate sono tante. Ne parliamo con Marina Casini, ricercatrice presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, che si interessa di bioetica, soprattutto con riferimento al diritto. È figlia di Carlo, presidente del Movimento per la vita. Quest’anno cade il 60° della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo… Assistiamo ad una crisi antropologica fortissima: tutti parliamo di diritti dell’uomo, li moltiplichiamo, li cataloghiamo, ne denunciamo – giustamente – le violazioni e poi… non si sa chi è l’uomo, al punto che qualcuno parla di diritti umani degli animali! La questione fondamentale è perciò quella antropologica: occorre dare solidità e verità ai diritti umani sottraendoli alla deriva che giunge persino ad utilizzarli contro l’uomo. E la bioetica che c’entra? L’umanità che incontra la bioetica è la più fragile, a rischio della più aspra emarginazione: quella autorizzata dalla legge. In questo senso la riflessione nell’ambito della bioetica offre una straordinaria occasione per rifondare i diritti dell’uomo sull’essere umano. Il primo capitolo della mia attività è proprio questo: il rapporto tra diritto, diritti umani e bioetica. Si parla anche di biodiritto. Un altro capitolo del suo lavoro è l’inizio della vita… In particolare l’aborto. Proprio in questo periodo è in corso un’intensa riflessione sulla legge 194, approvata trent’anni fa. Si avverte il crescere nella società civile di una sensibilità nuova, anche se accanto all’aborto chirurgico va affermandosi quello chimico, che si attua con molta più superficialità. Mi occupo anche di obiezione di coscienza in ambito sanitario e di fecondazione artificiale: centrale è sempre la questione antropologica, cioè che cosa o chi è quel minuscolo essere umano che si cerca in tutti i modi di generare in provetta. Terzo capitolo la fine della vita, immagino… I temi e le sfide sul tappeto sono molteplici: eutanasia, testamento biologico, accanimento terapeutico, proporzionalità delle cure, consenso informato e rifiuto delle cure, nutrizione e idratazione artificiale (soprattutto con riferimento a quella devastante disabilità che è il cosiddetto stato vegetativo), rapporto medico-paziente, cure palliative… La morte e il limite sono inestirpabili, ma è altrettanto inestirpabile la dignità umana. Nella logica dell’eutanasia e del cosiddetto testamento biologico vi è l’idea, più o meno occulta, che in certe condizioni la dignità umana sia diminuita se non addirittura azzerata. Così si chiede di poter anticipare la morte col conforto della legge. Come la mettiamo con la libertà di disporre della propria vita decidendo di morire? I sostenitori dell’eutanasia dicono che un giovane sano, bello, intelligente, magari padre di famiglia che ha ancora da mantenere dei figli, non ha la libertà, legalmente garantita, di uccidersi, magari facendosi aiutare da un’altra persona. Anzi, chi, anche usando la forza, ne impedisse il suicidio verrebbe lodato. Perché due pesi e due misure? Perché, invece, dovremmo aiutare a morire chi è vecchio, malato, gravemente disabile? In nome della libertà si tradisce il principio dell’uguale dignità di ogni essere umano. Lo sguardo della società non può essere diverso per l’uomo che si trova in condizioni di particolare fragilità. Forse è un po’ come per le cellule del nostro corpo: per rimanere in vita hanno bisogno di ricevere continuamente segnali dalle altre cellule. Segnali che dicono rimani viva… In un certo senso è così. Comunque bisogna rendersi conto che siamo in un processo che richiede tempi molto lunghi. Basta pensare a quanto c’è voluto per abbattere lo schiavismo che fino all’Ottocento era legale. È vero, c’erano padroni umani che trattavano bene gli schiavi, ma questi ultimi, giuridicamente, rimanevano cose che potevano essere utilizzate in qualsiasi modo. I percorsi storici di questo tipo sono lunghi, estenuanti e faticosi. Si dice che un malato di mente, se potesse capire, direbbe che vuole morire… Probabilmente, se potesse capire e avesse intorno persone che gli vogliono bene, non vorrebbe morire! Non c’è solo la qualità della vita, ma anche la qualità della relazione. Questo vale per tutti, soprattutto per coloro la cui fragilità è tale da non avere altra forza che l’accoglienza degli altri. Pensiamo ai barboni, agli immigrati, ai disoccupati, ai senza-tetto, agli esseri umani appena concepiti, ai malati, agli anziani soli, ai disabili, ai morenti. Ognuno di noi, incontrando il volto dell’altro, assume una responsabilità. La cultura della vita nasce da questo sguardo. Raccontiamolo alle mamme che hanno un figlio portatore di handicap e lo portano avanti tutta la vita, con amore e fatica… Le mamme – silenziose, umili, eroiche – (e le famiglie) che hanno accolto un figlio disabile raccontano che nessuna vita umana è inutile e che, anzi, più si dà affetto e più la propria vita acquista significato. Possiamo allora arrivare a dire che se ti suicidi è colpa mia, perché non ho fatto tutto quello che era possibile perché tu non ti sentissi solo? In un certo senso è così. In ogni caso, di fronte alla morte la società può atteggiarsi in due modi opposti. Il primo è la bandiera bianca: il medico e la società lottano per la vita, sapendo però che alla fine l’ultima battaglia è sempre perduta, perché la morte è inevitabile. Viene dunque il momento in cui bisogna arrendersi, alzando bandiera bianca. Insistere sarebbe sproporzionato, un accanimento terapeutico . E come la mettiamo se il paziente rifiuta le cure? Il discorso sarebbe lungo, perché la faccenda è articolata, complessa e delicata. Comunque può valere la stessa immagine: anche nel caso in cui il paziente rifiuti le cure, resta sempre valido l’attuale principio giuridico della indisponibilità della vita umana, e l’alleanza terapeutica – che contempla anche l’autonomia del medico – deve esplicarsi in modo da superare, se possibile, il dissenso del paziente. Certo, non si può ricorrere alla violenza! Di conseguenza, in certi casi, bisogna arrendersi e issare bandiera bianca. Viceversa se la volontà del paziente fosse l’esclusivo criterio dell’azione medica, allora verrebbe accettata l’idea della disponibilità della vita umana e saremmo nella logica del tappeto rosso. Spieghiamo questo tappeto rosso… Il secondo atteggiamento possibile è quello della strada indicata e spianata. Sarebbe come dire: hai la strada aperta per farla finita, tanto, che ci stai a fare qui, nelle tue condizioni, in fondo sei solo un costo per la società. Questo atteggiamento incide dentro la persona perché non esistono scelte individuali sganciate dalla percezione dell’ambiente sociale circostante. Nell’indigenza, nella malattia, nella disabilità, in situazioni di massima fragilità, l’indifferenza e la resistenza altrui a farsi amorevolmente carico della situazione sono una spinta a levarsi di mezzo. In sostanza, con l’idea stessa dell’eutanasia, la società stende un tappeto rosso tra l’uomo e la porta della morte. Come possiamo concludere? Alla fine, ciò di cui una persona ha bisogno è essere amata per sé stessa, non perché è utile a qualcun altro, o perché è bella, simpatica, intelligente o può fare favori a qualcuno. Il confronto non è tra laici e cattolici, ma tra la visione del tappeto rosso – per cui la società, attraverso le leggi, valuta se è il caso che tu rimanga o te ne vada (mentre ti dice ipocritamente che sei libero di scegliere!) – e quella della bandiera bianca, con la quale la società, e in particolare il medico, si arrendono, senza rinunciare, però, a riconoscere comunque l’uguale dignità di ogni essere umano.

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