Bambini lavoratori, sfruttati e sottopagati

C'è un "esercito" in italia di circa 260 mila pre-adolescenti costretti a esercitare un mestiere, anche pericoloso, per aiutare la famiglia o guadagnare qualche euro. Come aiutarli?
Bambino al lavoro

Per arrotondare il bilancio familiare, C. ha fatto il pescivendolo. Lavorava dalle 4 e mezza del mattino alle 3 del pomeriggio. Portava il ghiaccio senza guanti e se li chiedeva al suo datore di lavoro si sentiva rispondere: «Ti devi abituare, sei giovane». «Avevo sempre il raffreddore – ricorda –, ma ho guadagnato 60 euro». Praticamente niente.

C. è uno dei ragazzini intervistati nell'ambito dell'indagine sul lavoro minorile in Italia, i cui dati preliminari sono stati pubblicati nei giorni scorsi da Save the children Italia onlus e dall'associazione Bruno Trentin. L'indagine ha coinvolto, in qualità di intervistatori "tra pari", 22 ragazzi tra minorenni e neo maggiorenni, mentre il campione intervistato era rappresentato da oltre duemila ragazzi iscritti al biennio di 75 scuole secondarie superiori di 15 province italiane (Treviso, Vicenza, Torino, Genova, Monza e della Brianza, Lecco, Pisa, Roma, Frosinone, Caserta, Avellino, Napoli, Bari, Palermo, Trapani), che hanno risposto a un questionario strutturato con modalità di autocompilazione assistita.

I ragazzi con meno di 16 anni che lavorano sono più di uno su venti (il 5,2 per cento nella fascia di età 7-15 anni), circa 260 mila pre-adolescenti "costretti" a lavorare per esigenze familiari o per avere qualche euro in più nelle tasche, spesso penalizzando lo studio o rinunciando completamente all'istruzione. Si inizia a lavorare molto presto: uno 0,3 per cento inizia prima degli undici anni, come quel bambino di Napoli che, a 9 anni, lavora in un cantiere dove sposta sacchi di cemento che pesano quasi quanto lui, per dieci euro alla settimana. Con l'avanzare dell'età, aumentano naturalmente anche le percentuali, con un picco del 18,4 per cento (quasi due ragazzi su dieci) tra i 14 e i 15 anni.

«La cerchia familiare – si legge nell'indagine – è l’ambito nel quale si svolge la maggior parte delle attività. Per il 41 per cento dei minori si tratta di un lavoro nelle mini o micro imprese di famiglia, 1 su 3 si dedica ai lavori domestici continuativi per più ore al giorno, anche in conflitto con l’orario scolastico, più di 1 su 10 lavora presso attività condotte da parenti o amici, ma esiste un 14 per cento di minori che presta la propria opera a persone estranee all’ambito familiare».

Tra i lavori svolti fuori dalle mura domestiche prevalgono quelli nel settore della  ristorazione (18,7 per cento), come il barista o il cameriere, l’aiuto in cucina, in pasticceria o nei panifici, seguito dalla vendita stanziale o ambulante (14,7 per cento), insieme al lavoro agricolo o di allevamento (13,6 per cento), ma non manca il lavoro in cantiere (1,5 per cento) o come babysitter (4 per cento).

In molte famiglie il lavoro è visto come un elemento positivo di crescita anche se è illegale. Quindi se un giovane inizia presto “la gavetta” non ne fanno problema. Spesso, però, il lavoro perde il suo valore positivo per il minore non appena questi si trova ad affrontare orari estenuanti, condizioni di sicurezza inesistenti, rapporti basati su un linguaggio e una relazione violenta.

«Non sono sicuramente trattati con i guanti – spiega infatti un operatore del terzo settore – nel senso che i datori di lavoro o i colleghi li trattano male, gli danno ordini in modo brusco, li comandano nel vero senso della parola. Alla fine non imparano un lavoro, ma imparano la lingua del più forte e della violenza».

Come F., che nonostante sia giovanissimo, ha già lavorato come muratore. «Avevo le vertigini – racconta – e mi facevano salire su un’impalcatura di 20-25 metri. Il primo giorno stavo svenendo. Poi m’aggio abituato». C., invece, aiutava un venditore di abiti usati. «Lavoravo la notte dalle 23 fino alle 11, 12 del giorno. Avevo sempre la febbre. A fine mese mi davano 300 euro». In condizioni di necessità, purtroppo, si accetta tutto, per pochi euro, senza discutere.

Come fa K., che viene dall’Egitto e ha 13 anni. Ogni mattina alle 5 apre la frutteria dove lavora ed emette un primo scontrino di 0,01 euro, che serve per dimostrare al suo datore di lavoro che effettivamente all’alba ha iniziato a lavorare. La maggior parte del tempo la passa nel retrobottega a tagliare verdure e a pulire frutta; svuota e riempie le cassette; serve i clienti e porta la spesa a casa loro. Quando il negozio chiude, K. continua a lavorare fino alle 23 per riordinare il negozio. Questa è la sua vita, tutti i giorni, per 200 euro alla settimana.

E il futuro? Già, il futuro. «Pochi – si legge nel rapporto – parlano di sogni. Chi lo fa, pensa a un'attività in proprio, dove “nessuno mi comandi” o comunque a un’occupazione stabile, che dia “sicurezza”». La maggior parte dei giovani non vede un futuro positivo, si accontenta, vive alla giornata e non ha speranze.

Ma allora, cosa fare? Come intervenire per contrastare questo fenomeno? L'obiettivo dei promotori dell'indagine è la predisposizione, a livello istituzionale, di un Piano nazionale sul lavoro minorile, per monitorare il fenomeno e prevenire e contrastare il lavoro illegale. La crisi economica, infatti, se ha peggiorato le condizioni di vita di un'ampia fascia della popolazione, si è fatta sentire con particolare durezza soprattutto sui bambini. «Ormai – spiega Valerio Neri, direttore generale di Save the children Italia –, quasi un bambino su tre sotto i sei anni vive ai limiti della povertà, mentre il 23,7 per cento è in uno stato di deprivazione materiale».

Bisogna dunque intervenire con immediatezza, su tutti i fronti, concentrandosi anche sull'istruzione, per contrastare la dispersione scolastica e aiutare i giovanissimi a uscire dalle situazioni di marginalità.

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