Bambini e peccatori

Dal diario di un medico operante da oltre trent’anni nell’isola dei malgasci, ad Ambatondrazaka.
Ciro Fusco

«Bisogna stare con gli altri, sempre, anche quando ti sembra che non ci siano, che sei solo, in compagnia unicamente di te stesso». Queste parole rivolte da Chiara Lubich a Sergio Zavoli e da lui riportate mi sono sempre di luce e di aiuto nella drammaticità del dubbio che spesso mi assale qui ad Ambatondrazaka, a contatto con le povertà fisiche e morali di questa umanità con cui sono solidale.

 

Non sono un assistente sociale, né soltanto un medico, non sono un agente di una ong con scopi di sviluppo, e neppure un manager della sanità pubblica, non sono venuto nemmeno per “salvare le anime” o fare il missionario come comunemente lo si intende. Sono qui con uno scopo ben preciso: testimoniare con la mia vita il Vangelo per questo tempo, orientare quanti più posso verso la fraternità universale. A ciò voglio consacrare tempo, pensieri, immaginazione, forze, sogni, pazzie…

 

Altri cureranno meglio di me i malati, faranno opere sociali di grande respiro. A me compete essere un cuore che batte e vive per l’unità. Tutto sarà allora per me funzionale a questa parola uscita dalla bocca di Cristo: incontri, studi, viaggi, economia, preghiera, mezzi di comunicazione, casa… Mi specializzerò ogni giorno di più e meglio in questo compito senza guardare né a destra né a sinistra. Sempre avendo, come Gesù, lo sguardo fisso alla mia “ora”: abbandonato «perché tutti siano una cosa sola».

 

Ci sono solo due condizioni – in cui dobbiamo però riuscire a riconoscerci – per presentarci davanti a Dio e poter essere a lui graditi: quella del bambino e quella del peccatore. Siamo uomini tra gli uomini, non migliori di nessuno, ma “ci fidiamo” di Gesù e delle sue parole. Noi corriamo da lui, sicuri e forti delle speranze dei bambini che tutto si aspettano dal loro papà.

Considerando le nostre comunità, e vedendole a volte piccole, meschine, attraversate da gelosie, grettezze, piccoli egoismi e interessi, ci cascano le braccia! Eppure non erano poi così differenti gli apostoli e le donne che erano con Gesù o le folle che lo seguivano. La madre dei figli di Zebedeo reclamava un posto importante per Giacomo e Giovanni, i discepoli sognavano la gloria del Messia, tanti sfruttavano Gesù per i suoi poteri di guarigione…

 

Questa è l’umanità. Queste sono le nostre comunità. Questi siamo noi stessi. Dobbiamo imparare a essere come Gesù, il “medico divino”, paziente e dolce, al capezzale di questa nostra umanità malata, tra cui anche noi. Essere accanto, aver cura, ascoltare a lungo, con interesse e rispetto, far sentire ognuno importante. Amare cioè tutti a fondo perduto, senza aspettarsi riconoscenza, ma semplicemente perché siamo figli dell’unico Padre.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons