Ayurveda, sapienza della vita

Dall'India un approccio alla malattia a partire dalla persona considerata in maniera globale. Trattamenti utili in alcuni casi, non in tutti.
Ayurveda

Thellakon è un tipico villaggio del Kerala, all’estremo sud dell’India. La qualità della vita è cresciuta a vista d’occhio negli ultimi anni: case eleganti e moderne, auto locali e straniere. Eppure alcuni aspetti restano profondamente tradizionali: donne e ragazze avvolte nei saari tipici di questa zona, con capelli lunghi unti con olio di cocco per mantenerne la lucentezza e ripararsi dal sole. Gli uomini, con i caratteristici pantaloni lunghi bianchi, spesso arrotolati fino al ginocchio nel momento del lavoro fisico. Autobus modernissimi si alternano a vecchi mezzi di proprietà del governo.

Thellakon, dicevamo, un paesotto alla periferia di Kottayam, città importante e di cultura e tradizione. La località è conosciuta da tutti nel raggio di chilometri per l’ospedale Carithas, un complesso da far invidia a istituti di medicina americani. Superato l’ospedale ci si addentra in boschi di alberi della gomma e, improvvisamente, sulla sinistra si apre un grande arco: Carithas Ayurveda. È il settore dell’ospedale che segue la medicina classica indiana.

 

Chi arriva in un vero centro ayurvedico si trova di fronte ad una scelta di vita. Non propone solo un approccio diverso alla medicina, alla malattia e alla cura, ma richiede anche una dieta vegetariana, una vita che porta al rilassamento e alla riflessione. La religione è presente in modo discreto ma sensibile. Prima delle varie cure, gli infermieri invocano Dio e si rivolgono alle immagini di alcune divinità del pantheon indù.

Ayesha, Christie e Ramakrishnan sono tre dottori che ho conosciuto bene nei quindici giorni trascorsi presso il centro ayurvedico di Kottayam. Con loro iniziamo un’appassionante conversazione su questa medicina pressoché sconosciuta in Europa, eccezion fatta per i Paesi di lingua tedesca dove si sta sviluppando in modo sorprendente. Ma spesso è un interesse legato al turismo o a periodi di relax in località da favola.

Ma l’ayurveda è tutt’altro che una questione commerciale. «È un senso della vita – come mi dice la dottoressa Ayesha – che viene dalla sapienza di Dio, contenuta in quei testi antichissimi che sono i Veda». È percepita come una risposta alla richiesta che i saggi, davanti a epidemie e calamità, avevano fatto a Indra, altra divinità da loro considerata importante.

Dalla Atharwa-Veda, uno dei quattro Veda, si scriveranno poi altri trattati, «ma – precisa Christie, che si è appena laureata e sta facendo il tirocinio – la coscienza di chi la pratica resta incrollabile: è Dio che ci insegna come curare il corpo dell’uomo».

Ramakrishna è indù, ma Ayesha e Christie sono cattoliche. Entrambe non lo sentono come un problema. «È vero che la maggioranza dei medici ayurvedici sono indù, ma essere cristiani non è assolutamente un ostacolo. Qui non c’è differenza fra medici delle diverse religioni». Quasi tutte le infermiere, fra l’altro, sono cristiane.

 

La prospettiva dell’ayurveda, con tutta probabilità, farebbe impallidire qualsiasi medico occidentale. Si fonda, infatti, sull’equilibrio dei cinque elementi fondamentali che, secondo i Veda, formano ogni essere vivente: terra, acqua, fuoco, aria ed etere. «Sono ordinati – mi spiegano – secondo tre dosha che controllano ciascuno un aspetto del corpo umano: i movimenti del corpo (wada), la digestione (pitha) e la posizione e il ruolo naturale di ogni parte (kapha). Tutte le malattie sono forme di squilibrio fra i cinque elementi all’interno di questi ambiti».

La prospettiva dell’ayurveda richiede un vero salto copernicano di mentalità e di approccio; ma suggerisce un elemento fondamentale, forse non più così chiaro nella medicina occidentale: «Curiamo non la malattia dell’uomo ma l’uomo con la sua malattia», chiarisce Ramakrishnan. È il tipico atteggiamento olistico, che l’Oriente propone e che l’Occidente ha ormai perso nella sua corsa verso la superspecializzazione.

In effetti, un trattamento ayurvedico è un’esperienza a misura d’uomo. Tutto è mirato all’ammalato: la cura, le medicine, la dieta da seguire. Le medicine hanno un gusto che a volte mozza il fiato. Spesso sono davvero disgustose. Eppure sono tutte fatte con prodotti naturali e con processi controllatissimi, lunghi a volte mesi, dal momento della raccolta delle foglie o delle radici alla fase finale della preparazione. Soprattutto non hanno effetti collaterali.

«Ovviamente – azzardo – per infarti e cancro non può fare molto». E la recente vicenda del bambino morto a Cavalese per una fibrosi cistica curata solo col trattamento ayurvedico, conferma che non in tutti i casi esso è sufficiente. «Certo – sorride Ayesha, che senza scomporsi continua –, quando si arriva a quel punto bisogna intervenire diversamente. Significa che si è trascurato il corpo e i suoi equilibri per molto tempo. Nell’ayurveda noi cerchiamo di fare in modo che non si arrivi ad ammalarsi di tumore e di malattie cardiovascolari».

Al di là del fatto di condividere o meno una tecnica medica, certo è che una maggiore apertura anche all’interno del mondo della medicina tradizionale, spesso condizionato da interessi commerciali e di potere, più che da un vero rivolgersi a chi ha bisogno di cura, gioverebbe a tutti.

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