Ayodhya e gli utlimi scontri religiosi

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Mokhsa è una parola chiave per ciascuno degli 800 milioni di indù, al di là della divinità cui si affidano per questa vita e quelle successive, secondo il concetto del karma e della reicarnazione. Moksha significa, infatti, liberazione. E non è una liberazione qualsiasi, ma quella definitiva in cui l’anima spezza la catena, altrimenti infinita, di reincarnazioni in esseri viventi per riunirsi al Brahaman, l’anima universale, l’Assoluto. Ovviamente una vita piena di meriti è la via sicura verso il Moksha. Ma l’uomo, come in tutte le cose, cerca sempre scorciatoie, ed il pellegrinaggio verso alcuni luoghi santi è una delle vie maestre per sperare di abbreviare un processo altrimenti quasi infinito. Per questo motivo milioni di indù ogni anno viaggiano verso località dai nomi esotici e spesso impronunciabili. Si trovano sparse ai quattro punti cardinali. Fra tutte, sette sono quelle che garantiscono il Moksha al pellegrino pieno di fede: Varanasi, Kanchipuram, Dwarka, Mathura, Haridwar, Ayodhya e Ujjain. Questi Tirtha, come vengono chiamati in sanscrito, sono meta costante di pellegrinaggi ed offrono ai fedeli una molteplicità di templi, normalmente affacciati su un fiume, che la ricchissima mitologia indù ha legato ad uno degli episodi della vita del dio, che via via prende nomi diversi: Krishna o Vishnu, Ganesh o Parwati, Rama o Kali. Il fiume, poi, permette al pellegrino di bagnarsi, compiendo quindi un rito purificatore che deve accompagnare la visita e l’offerta al tempio. La zona attorno ai templi è sempre caratterizzata da una costante di folla caotica e gioiosa. Stradine intasate di fedeli, mendicanti e venditori, conducono alle entrate principali. Odori di ogni tipo condiscono l’atmosfera che si fa pungente per chi non ci è abituato: al profumo del sacro ghee si mischia quello dei fiori delle ghirlande offerte per le statue degli dei, quello del fritto dei venditori di cibo si fonde con quello di sterco di mucca seccato che serve come combustibile. Ognuno di questi luoghi è un cosmo ed è difficile capire un indù e la sua religiosità se non si è almeno una volta visitato una di queste località sacre. Spesso negli ultimi anni le pagine dei giornali ed i titoli dei notiziari televisivi hanno fatto riferimento a Ayodhya. Non sempre purtroppo sono notizie di religione. Spesso si tratta di scontri fra mussulmani e indù. Ad Ayodhya, cittadina che si adagia sulla pianura del Gange che attraversa lo stato dell’Uttar Pradesh, il più popoloso dell’Unione Indiana, l’induismo trova la sua patria indiscussa. È infatti lo stato di Varanasi, la città santa, come pure quello del Gange che lo attraversa fin dalle sorgenti. Tuttavia varie località sono centri di cultura islamica, come i nomi stessi tradiscono: Allahabad, Aligarh, Lucknow. Gran parte dello stato, infatti, fu conquistato dall’impero moghul e quello fu il tempo in cui inziarono i problemi di cui si pagano ancora oggi le conseguenze. Nel 1530 Babur, gran moghul di Delhi, dopo aver conquistato tutto il Nord dell’India, decise di costruire la moschea Babri Masjid. Sarebbe in definitiva andato anche bene se non avesse imposto la distruzione di vari templi indù preesistenti. Ayodhya non era un posto qualsiasi: la tradizione racconta che qui nacque Rama, settima reincarnazione di Vishnu. Gli indù restarono in silenzio per secoli. Ma la tradizione, tramandata, come sempre in India, di bocca in bocca, diceva che anticamente il tempio dedicato a Rama fosse proprio sul terreno dove fu poi edificata la Babri Masjid. Con la crescita del fondamentalismo indù, Ayodhya e la Babri Masjid sono diventati un cavallo di battaglia delle rivendicazioni di una religione sull’altra. Gli integralisti dei vari gruppi indù più militanti vogliono da anni costruire il Ramanjanmabhooni, il tempio a Rama. Da un lato, la questione pareva essere una semplice diatriba di culto, ma come in tutte le religioni d’Oriente, ha finito per sconfinare nel politico e nel civile. L’India con tutte le sue fedi, come pure i paesi a forte influenza mussulmana e quelli del sud-est asiatico di tradizione buddhista, non conoscono, e probabilmente mai conosceranno, la distinzione fra religione e stato e fra dominio temporale e religioso che l’Europa ha faticosamente conquistato negli ultimi secoli. Tale separazione pare essere aliena dal pensiero e dall’agire di credi religiosi che non siano la cristianità d’oggi. In India la crescita del fondamentalismo indù ha finito per portare al potere il Bharatyia Janata Party (Bjp), che propone l’hindutva, un programma politico che vuole il paese per gli indù. Fedeli di altre religioni sono ben accetti a patto che accondiscendano ad accettare l’induismo come fattore culturale e di tradizione, prima della propria religione, sia essa l’Islam o il cristianesimo o qualsiasi altro credo. Ad Ayodhya, quindi, luogo chiave della fede indù, alla fine degli anni Ottanta, si decise la ricostruzione del tempio preesistente. Anche se a deciderlo fu di fatto una minoranza composta di gruppi estremisti, la tensione salì progressivamente, fino ai tragici fatti del dicembre del 1992, quando diverse migliaia di fanatici assaltarono la moschea riducendola in briciole prima d’essere fermati dall’esercito. Ma era troppo tardi: seguirono scontri cruenti nella zona stessa, ma anche a Mumbai, Bangalore e Ahmedabad, con la morte di migliaia di persone, prima che l’esercito e i giochi politici trovassero un accordo per riuscire a ristabilire l’ordine pubblico. Da allora la situazione è sì rimasta sotto controllo, ma con equilibri assai precari. Il Bjp, al governo ormai da diversi anni, ha dovuto inserire la ricostruzione del tempio nel suo programma politico per ottenere i voti popolari decisivi a spingerlo in cima alla scala dei partiti dell’India. Tuttavia, sebbene partito di maggioranza, può fare abbastanza poco per realizzare appieno tale punto, legato com’è ad una coalizione di altri diciassette gruppi politici, nessuno dei quali fondamentalista, eccezion fatta per lo Shiv Sena (Esercito di Shiva) di Mumbai. È per questo che vari gruppi fondamentalisti (Vhp, Rss, Bhajarang Dal), dopo anni di attesa hanno deciso di passare all’attacco, convocando i loro seguaci ad Ayodhya nel febbraio 2002, per la costruzione del tempio a Rama. I volontari sono accorsi ed un treno carico di attivisti sulla via del ritorno è stato attaccato nello stato del Gujarat. Alcune carrozze sono state incendiate e decine di persone arse vive. Ma ancora più tragici sono stati i giorni seguenti, quando scontri fra indù e mussulmani sono scoppiati a Ahmebadad, a Baroda e Surat nello stato che ha dato i natali al Mahatma Gandhi. È iniziato un braccio di ferro fra fondamentalisti e governo da una parte e leader mussulmani dall’altra. Il nuovo rigurgito di tensione e di violenza fa capire a tutti che non solo il problema Ayodhya non è risolto, ma che tutto il rapporto di tensione fra integralisti indù e mussulmani poggia su equilibri che si possono spezzare da un momento all’altro. I giochi politici complicano ulteriormente la situazione. Il Bjp, salito al potere grazie ai fondamentalisti stessi e all’elettorato indù in generale, deve dimostrare che non lascerà cadere le sue promesse. Molte fazioni vedono però nel primo ministro Atul Vajpayee un uomo ormai troppo debole e rinunciatario. Il partito comunque si trova con le spalle al muro perché i suoi alleati hanno messo in chiaro che non approverebbero mai un’azione a favore dei fondamentalisti indù. Negli ultimi mesi, inoltre, diversi testimoni, coraggiosi e tenaci, hanno confermato i sospetti che gli incidenti dello stato del Gujarat nel marzo del 2002 fossero stati concertati dal governo locale, guidato dall’onorevole. Modi, primo ministro del Bjp, con il tacito consenso dell’amministrazione e delle istituzioni che dovrebbero presiedere all’ordine pubblico. Più recentemente, mentre si stanno riproponendo presso i tribunali denunce particolareggiate contro politici per la carneficina di cui sono stati vittime migliaia di mussulmani, la Corte suprema dell’India ha sancito lo stop ai lavori di ricostruzione del tempio di Ayodhya. Non solo, ma per evitare altri possibili malintesi, ha bandito qualsiasi espressione di fede religiosa sul terreno in questione. Il verdetto dà respiro al primo ministro e al partito di maggioranza, ma anche la speranza alle minoranze religiose di decisioni non di parte, da parte degli organi supremi della magistratura. La situazione è tutt’altro che risolta, ma, tutto sommato, ancora una volta come in tutto il mondo, ma soprattutto in Asia, il tempo porterà una soluzione o, almeno, placherà animi e sentimenti.

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