Avevo fame. . .

“Avevo fame e mi avete dato da mangiare”. Se al giudizio finale questo asserto risuonerà alle nostre orecchie così formulato, buon per noi, perché Dio ci avrà già chiamati a riscuotere una ricompensa eterna. Ma se ci verrà invece ricordato che non gli abbiamo dato da mangiare, non basterà replicare “Quando mai…?” per non sentirci rispondere che “ogni qualvolta non lo abbiamo fatto ad uno di questi minimi”, non lo abbiamo fatto a lui. Non c’è scampo. Siamo corresponsabili gli uni degli altri. Anche la madre che nella foto qui riprodotta, dignitosissima nel suo dolore, solleva quasi come un’ostia sacrificale il suo piccolo denutrito e morente, sembra levarsi davanti a noi come un giudice. Non dovrebbe esserci discorso più chiaro, sintetico, facile da capire, di questo. Non c’è precetto forse di questo più disatteso. In compenso se ne può parlare tanto di questo argomento, senza concludere nulla, solo per auspicare soluzioni che cadranno regolarmente nel vuoto. È chiaro che parliamo della Fao e del Convegno che si è concluso a Roma, suscitando l’indignazione di molti, a cominciare dalle organizzazioni non governative (di tutte le estrazioni), cui non era rimasto che riunirsi in un vertice a latere dove manifestare il proprio dissenso. Un disappunto che ha sintetizzato Luigi Bobba, presidente nazionale delle Acli: “Se la coerenza fosse ancora una virtù… la Fao dovrebbe andarsene dall’Italia e il suo direttore generale Diouf rassegnare le dimissioni. Non c’è niente di peggio e di eticamente più sconcertante – prosegue – che prendere in giro i poveri e fare retorica e proclami di fronte a chi muore di fame”. Mentre permane il non senso che una metà del bilancio della Fao venga assorbito dalle spese di organizzazione. Le cifre della tragedia ci sono state ricordate in questi giorni: si parla di 900 morti all’ora (quasi 30 milanelle 32 ore di svolgimento del vertice). E il fatto che il documento finale fosse stato varato all’inizio del congresso, pare indicare che questo dramma viene considerato ineluttabile. Tant’è che gli obiettivi dell’ultimo summit, quello del ’96, sono stati del tutto disattesi e riproposti oggi. Se almeno l’Italia, che ha fatto gli onori di casa ed ha dovuto “stare al gioco”, potesse riscattare le proprie inadempienze aggiornando subito il proprio contributo portandolo dallo 0,13 all’1 per cento della ricchezza prodotta, come promesso dal nostro presidente del Consiglio, darebbe quanto meno un segnale positivo di cambiamento. Purtroppo la grande fame planetaria è combattuta quasi soltanto con interventi di emergenza – che pure ci vogliono e ci vorranno sempre -, mentre non si tiene sufficientemente conto del fatto che essa deve venire affrontata a monte, sul piano della produzione nei paesi che hanno un deficit alimentare. Certo, si può anche riconoscere che molto è stato fatto, e che anche per tali obiettivi servono aiuti. Ma soprattutto serve mettere questi paesi nelle condizioni di commercializzare i loro prodotti. Di accedere cioè ai mercati internazionali, superando le protezioni che i paesi ricchi frappongono per difendere i propri settori di produzione. In sostanza ci vuole prima di tutto una condizione di pace che non si limiti al silenzio delle armi, ma che favorisca gli scambi economici per svilupparli in un regime di libertà, certamente, ma pure di tutela dei più deboli. Anche gli aiuti, come vengono elargiti oggi, possono essere condizionanti e finire per creare nuove e gravose dipendenze. La risposta alle attuali incongruenze e ai ripetuti fallimenti la troviamo nella cultura della solidarietà che le organizzazioni non governative in testa testimoniano, spesso con eroismo, ma che nelle relazioni internazionali è largamente disattesa.

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