Decine di milioni di persone in tutto il mondo continuano a essere costrette a fuggire dalle proprie case e a cercare rifugio da conflitti e violenze. Secondo dati diffusi dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), a metà del 2025, il numero di persone sfollate a causa di guerre, violenze e persecuzioni superava i 117 milioni. Allo stesso tempo, inondazioni, tempeste e altri eventi meteorologici estremi, insieme a cambiamenti ambientali graduali, come l’innalzamento del livello del mare e la desertificazione, stanno esacerbando le condizioni di crisi che causano gli sfollamenti e aggravano situazioni di sfollamento già complesse.
A livello globale, si stima che il 40% del territorio è degradato, colpendo metà dell’umanità e minacciando la biodiversità, l’acqua potabile e per l’irrigazione, la sicurezza alimentare e i mezzi di sussistenza. Tra il 2015 e il 2019, si stima che ogni anno siano stati degradati circa 100 milioni di ettari di terreno sano e produttivo, un’area grande all’incirca quanto l’Egitto. D’altronde, man mano che gli ecosistemi vengono danneggiati, anche a causa delle ostilità belliche, la resilienza delle persone si riduce ulteriormente e l’adattamento climatico diventa più difficile.
Queste criticità legate al cambiamento climatico aggravano le molteplici cause di sfollamento forzato, sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali. Nell’ultimo decennio, i disastri meteorologici hanno causato circa 250 milioni di sfollati interni, equivalenti a oltre 67.000 sfollati al giorno. Questo rappresenta un aumento del 10% rispetto alla media decennale fino alla fine del 2023.
Le condizioni dei bambini, poi, sono anche peggiori. Tra il 2016 e il 2023, infatti, si sono verificati oltre 62 milioni di spostamenti di bambini dovuti alle condizioni meteorologiche, equivalenti a circa 21.000 spostamenti al giorno. I bambini e i giovani sfollati, che si trovino in insediamenti di rifugiati, baraccopoli urbane o megalopoli, spesso hanno meno risorse per far fronte alla situazione e vengono spinti ai margini della società, dove il rischio di pericoli climatici è maggiore.
Così, milioni di rifugiati, persone costrette a fuggire e le comunità che li ospitano sono intrappolate in un circolo vizioso sempre più grave di conflitti e condizioni climatiche estreme. Solo nel 2024, un terzo delle emergenze dichiarate dall’UNHCR risultano dovute all’impatto di eventi meteorologici estremi sulle persone che erano già state sfollate a causa di conflitti, mentre già a metà del 2025, oltre 86 milioni di sfollati vivevano in Paesi con un’esposizione elevata o estrema ai rischi legati al clima.
Inoltre, molti rifugiati non hanno un riconoscimento formale o una documentazione adeguata, il che limita l’accesso ai servizi, all’occupazione, all’istruzione e ai programmi di adattamento climatico. Non a caso, anche quando i rifugiati hanno il diritto legale di lavorare, possono trovarsi di fatto in una situazione di esclusione a causa di discriminazioni, ostacoli burocratici come l’accesso ai conti bancari o difficoltà nell’ottenere le certificazioni richieste per determinate professioni. Queste barriere non solo limitano i mezzi di sussistenza, ma limitano anche l’accesso ai programmi di adattamento climatico e agli strumenti finanziari che potrebbero contribuire a rafforzare la resilienza agli shock climatici.
Allo stesso tempo, soluzioni durature al problema degli sfollamenti stanno diventando sempre più difficili da trovare, laddove gli impatti dei cambiamenti climatici si aggiungono alle sfide che gli sfollati o i rimpatriati devono affrontare per trovare luoghi sicuri in cui stabilirsi e chiamare casa, aumentando quindi il rischio di sfollamenti prolungati, ricorrenti e continui. È il caso di Dadaab, in Kenya, dove 20.000 rifugiati sono stati sfollati dai campi a causa delle inondazioni causate da El Niño, all’inizio del 2024, o anche del Rio Grande do Sul, nel Brasile meridionale, dove le inondazioni estreme nella metà del 2024 hanno costretto 775.000 persone a sfollare e hanno colpito pesantemente 43.000 rifugiati e altre persone bisognose di protezione internazionale, mettendo a dura prova la loro integrazione locale.
È questo il quadro allarmante che emerge nel rapporto No Escape II: The Way Forward, presentato da UNHCR in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2025 (COP30). Il rapporto mostra anche che tre rifugiati o sfollati su 4 vivono attualmente in Paesi esposti a rischi climatici da elevati a estremi, che 1,2 milioni di rifugiati sono tornati a casa all’inizio del 2025, metà dei quali in zone altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici, che il 75% del territorio africano sta subendo un deterioramento e oltre la metà degli insediamenti di rifugiati si trova in zone ad alto stress. Si pensi però che, dall’aprile 2023, circa 1,3 milioni di persone in fuga dal solo conflitto in Sudan hanno cercato rifugio in Sud Sudan e Ciad, due Paesi tra i meno attrezzati per far fronte alla crescente emergenza climatica.
Inoltre, si prevede che quasi tutti gli insediamenti di rifugiati attualmente esistenti dovranno affrontare un aumento senza precedenti di ondate di calore pericolose, mentre entro il 2050 i quindici campi rifugiati più caldi del mondo, situati in Gambia, Eritrea, Etiopia, Senegal e Mali, dovranno affrontare quasi 200 giorni o più di stress da ondate di calore pericolose all’anno. Del resto, entro il 2040 il numero di Paesi che dovranno affrontare rischi climatici estremi potrebbe aumentare da 3 a 65, Paesi che ospitano oltre il 45% di tutte le persone che attualmente vivono in condizioni di sfollamento.
L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha osservato che «ogni anno, gli impatti complessivi di conflitti, eventi meteorologici estremi e disastri su rifugiati, sfollati e persone che li accolgono continuano ad aggravarsi, ma aumenta anche la nostra comprensione di ciò che funziona: investimenti coraggiosi, azioni inclusive e fiducia nelle comunità colpite». Purtroppo, «il divario tra bisogni e risorse disponibili rimane ampio e le persone non possono sopravvivere in questo divario», che va colmato «non a parole, ma con ferma volontà, solidarietà e un’azione costante per il clima».
Infatti, l’UNHCR ha esortato i governi, le istituzioni finanziarie e la comunità internazionale ad agire con decisione, accelerando azioni per il clima inclusive e attente ai conflitti nelle aree che ospitano gli sfollati, includendo le persone costrette alla fuga e le comunità ospitanti nella pianificazione e nel processo decisionale sul clima, investendo nell’adattamento e nella costruzione della resilienza e garantendo che i finanziamenti per il clima raggiungano coloro che sono in prima linea nell’affrontarlo, sostenendo le comunità sfollate e le comunità che le ospitano, ma anche aumentando l’accesso equo ai finanziamenti per il clima per i rifugiati e gli altri sfollati, insieme alle comunità che li ospitano, in particolare in contesti fragili e colpiti da conflitti. D’altronde, è necessario garantire che le politiche e i piani per il clima siano sviluppati in consultazione con i rifugiati e gli altri sfollati, riconoscendo le loro preoccupazioni e i loro contributi specifici.