Attore per “vocazione”

Passionale, lo è di certo. E rigoroso. Basta osservare come si è dato tutto nel personaggio sensibile di Andrea Obrofari in Orgoglio o come ha esordito da presentatore nel megaconcerto del Genrosso in Vaticano lo scorso 18 maggio. Vincenzo, 30 anni, volto aristocratico e carattere di fuoco, è uno che al suo lavoro ci crede. Per forza, visto che è ancora ragazzo quando lascia le colline senesi dove vive una famiglia bellissima, unita, di sei figli: un mondo fiabesco e sale a Milano alla scuola teatrale di Giorgio Strehler. Studiavo pittura a Siena all’istituto d’arte – racconta con fare vivace – e vengo invitato ad un laboratorio teatrale. La cosa, nata per gioco, mi appassiona a tal punto che lascio la scuola, mi butto nel teatro. A 17 anni, grazie ad un’amica che ha mandato il mio curriculum al bando di concorso, vengo preso da Strehler. Tre anni durissimi. Otto ore di studio, tutti i giorni: i classici, la recitazione in versi (ormai un fiore raro),tanta competizione fra noi attori, ovviamente, e un’immensa voglia di sfondare. Non esiste genio e sregolatezza, esistono le regole, ammoniva Strehler, che mi ha preso a patto che mi diplomassi all’istituto d’arte, come poi è successo. A 21 anni il Premio Montegrotto con Vittorio Gassman in giuria, interpretando una parte nel Faust di Goethe, poi, dopo una serie di provini, la girandola sui palcoscenici italiani ed internazionali. Glauco Mauri mi ha preso come attor giovane nella sua compagnia. Una lunga serie di spettacoli: Shakespeare, Pirandello, le tragedie greche nei teatri siciliani… Una tournée mondiale con Antigone – ero la Guardia e il Messaggero – dalle capitali asiatiche – Tokyo Seoul Singapore – alla Grecia. Anni intensi, sempre in viaggio e tanta solitudine. In quei momenti ho capito che tutta questa rinuncia doveva pur portare ad un fine, perché il teatro è un viaggio in sé stessi ma attraverso gli altri, gli occhi del pubblico. Mi sono chiesto: ma io, che sento questa vocazione posso essere utile a qualcosa?. Succedono nella sua vita degli episodi, quasi una risposta. Recitavo nella Tempesta di Shakespeare come Ariel a Genova. Una ragazzina veniva sempre agli spettacoli, mi scriveva lettere con dei disegni. Mi pareva avesse dei problemi, ma non riuscivo a individuarli. Un anno dopo, me la ritrovo a Siracusa: i genitori mi prendono in disparte e mi ringraziano perché da quando mi aveva seguito nella Tempesta si era ripresa dall’anoressia… Allora ho compreso che noi attori attraverso il nostro lavoro, tramite la poesia, abbiamo forse la missione, l’arte di accarezzare le anime delle persone, farle sognare, trasmettere positività. Perciò io amo molto questo lavoro, che mi dà la sensazione di liberarmi di qualcosa, di darlo alla gente. Vorrei infatti che chi mi vede – a teatro o sullo schermo – ricevesse tanto amore. Perché per me l’amore è un abbassare le barriere dei pregiudizi, dare gioia, calore, consapevolezza. Sacrificio anche, come ho notato in The Passion, un film che mi ha commosso moltissimo. Dal teatro allo schermo. Succede nel ’99 quando Vincenzo, mentre recita nel Re Lear all’Eliseo a Roma, conosce Giuseppe Perrone, mitico agente di spettacolo, amico di Giorgio Albertazzi con cui il giovane ha molto collaborato (è un mio punto di riferimento, afferma), che dal 2000 contribuisce a lanciarlo sul piccolo schermo: La Squadra, Camici bianchi, Incantesimo, Il bello delle donne, Cinecittà, Orgoglio… Fino a E ridendo l’uccise, il film di Florestano Vancini, nel ruolo del cardinal Ippolito d’Este, presente alla prossima Mostra del Cinema di Venezia. Il passaggio dal teatro alla televisione – ammette Vincenzo con la consueta schiettezza – è stato un po’ destabilizzante, perché è un altro codice. Un altro pianeta. Mi mancava il camerino, la recita quotidiana, l’entrare in scena, quella certa sacralità. Ho incontrato le attese, i ciak, ma pure una tavolozza di colori nuovi, certi piccoli passaggi dell’anima che in teatro non si possono esprimere, e poi ,certo, la popolarità, che ti alza le quotazioni, anche se la concorrenza è alta e quasi sembra che non importi se sei più o meno bravo… Comunque, io sento una grande responsabilità verso il pubblico, gli devo dare il massimo, perché tu entri nelle loro case o pagano il biglietto. Certo, ancora non ho fatto quello che vorrei realmente esprimere, come alcuni ruoli della grande letteratura, per esempio l’Idiota di Dostoevskij. Vorrei mettere a frutto la mia esperienza, perché bisogna far tornare l’amore per l’armonia, per il bello, per la qualità, anche della nostra lingua. Ma noi attori siamo degli strumenti molto fragili, che vanno lucidati, protetti. Per questo, lo stato, le istituzioni culturali dovrebbero, come avveniva nell’antichità, riconoscere il talento delle persone, proteggerlo: la precarietà ti può distruggere. Il nostro, non è un ambiente facile, ti devi corazzare dentro, esser selettivo nella scelta dei ruoli. Io ho avuto la fortuna di incontrare Perrone Perrone che è quasi un secondo padre. A proposito di incontri. Vincenzo racconta un fatto molto personale: Qualche anno fa, ero nel duomo di Bologna, davanti ad un crocifisso: chiedevo a Dio se il mio lavoro potesse servire a uno scopo. Mi sentivo arido, lontano, qualcosa non funzionava. Ho ricominciato un cammino di fede, piano piano – vengo da una famiglia di forte testimonianza religiosa -, dopo una fase di rifiuto. Certo, mi accorgo che più mi sembra di aver capito, più sono lontano dallo scoprire cosa sia la fede, ma è un percorso che mi ha attirato fin da bambino. Mi sono distaccato, ultimamente, anche da una certa materialità, acquistando più forza, e dando spazio alla preghiera. Quando sto in una chiesa, fra la gente, la domenica, respiro un’aria diversa, per cui mi sembra assurdo che un artista non creda: per me l’arte, la creatività e Dio stanno sempre insieme. Vincenzo, parlando di sé, si definisce un prisma dalle mille sfaccettature che sono poi quelle della vita. Intanto, fra i molti progetti, è già sul set della seconda serie di Orgoglio e poi partirà a settembre per una tournée internazionale – da Belgrado a Parigi – con un recital per la pace Viaggio nella poesia italiana insieme al chitarrista Marko Feri. Anche una famiglia e dei figli, nel futuro?. Sì, però devo solidificarmi prima, ammette. Per ora, ogni tanto, fa una scappata a Presciano d’Arbia dai suoi, a respirare aria pulita. Poi, di nuovo subito al lavoro.

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