Attacco alla legge che vieta di inviare armi ai Paesi in guerra

Caduto il divieto di esportazione di missili e bombe in Arabia Saudita, l’Associazione confindustriale delle aziende della Difesa auspica una modifica alla legge 185/90 e censura i vincoli etici che frenano il sistema bancario in materia di armi. Pieno consenso dei vertici militari e della maggioranza politica nel clima indotto dalla guerra in Ucraina
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Produzione di armi. Foto Ap La Presse

Il governo italiano ha deciso di rimuovere il divieto di esportazione di bombe e missili verso l’Arabia Saudita. Una scelta prevedibile, come abbiamo già esposto in un precedente articolo, in linea con la strategia di consolidare i rapporti con un Paese che si pone, da anni, ai vertici del sistema mondiale degli armamenti. La decisione avvantaggia in particolare la società Rwm Italia, controllata dalla multinazionale tedesca Reihnmetall, che si era vista, caso più unico che raro, sospendere e poi revocare, sotto i governi Conte 1 e 2, l’autorizzazione all’esportazione bellica verso Riad a causa dell’impiego delle armi nella guerra in Yemen.  Il divieto è caduto per “l’attenuazione significativa del rischio” di tale utilizzo delle armi che si è consumato contro la popolazione civile (comprese scuole e ospedali, come denunciato anche in sede Onu).

La Reihnmetall è un perno fondamentale del piano di riarmo da 100 miliardi di euro della Germania approntato autonomamente dal cancelliere socialdemocratico Scholz all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina. La multinazionale teutonica gode, tra l’altro, di una posizione di vantaggio anche nella competizione per la fornitura di un milione di proiettili promessi all’esercito ucraino dall’Unione europea con investimenti diretti a «potenziare la nostra industria della difesa» come dichiarato nel maggio scorso dal commissario al Mercato Interno Thierry Breton.

L’urgenza di armare l’Ucraina conduce la Rwm a definire come intralcio burocratico l’opposizione avanzata finora dall’associazionismo civile del Sulcis Iglesiente contro l’ampliamento della fabbrica per motivi di sicurezza e di carattere ambientale. Un contenzioso che è ora all’attenzione del Consiglio di Stato.

Sullo sfondo è evidente il delinearsi di un modello di economia e di sviluppo imperniato sulla produzione bellica in un’isola sede di poligoni pericolosi ed esercitazioni militari. L’ultima si è tenuta a maggio con l’impiego di 6000 soldati di 23 nazioni (di cui 12 Paesi Nato e 11 partner), 41 unità navali e dell’aviazione.

Ma un quadro generale del nuovo deciso orientamento che sembra prevalere nel nostro Paese è emerso il 3 luglio 2023 nella riunione dei dell’Associazione di Confindustria delle aziende della difesa e dello spazio (Aiad) che si è tenuta presso il Centro alti studi della Difesa (Casd) diretto dall’ammiraglio Giacinto Ottaviani.

In questa sede si è reso esplicito il progetto di arrivare nei prossimi mesi a cambiare la legge 185 del 1990 che pone dei limiti all’esportazione delle armi prodotte in Italia verso i Paesi in stato di conflitto e/o che violano i diritti umani. Una normativa aggirata in tanti modi, come è evidente nel caso dei rapporti con l’Arabia Saudita, ma che è considerata un freno ad un’attività industriale che è chiamata ad operare in un contesto internazionale fortemente competitivo «non solo tra avversari ma pure tra alleati» come fa notare Pietro Batacchi, direttore della Rivista italiana di Difesa. Parliamo di attori «spregiudicati ed emergenti» che non hanno remore di carattere etico.

D’altra parte, come ha fatto notare durante l’incontro dell’Aiad il generale Luciano Portolano, «oggi il 70% del fatturato industriale viene dall’export”». Una conferma che arriva dal segretario generale della Difesa, nonché direttore nazionale armamenti, sulla insostenibilità di una produzione bellica limitata al mercato interno della difesa nazionale.

Durante l’interessante incontro svoltosi  nella bella sede del Casd è emerso anche l’incidenza della campagna della società civile contro le “banche armate” perché lo stesso presidente dell’Aiad, Giuseppe Cossiga, ha censurato il mancato supporto immediato all’industria delle armi da parte del sistema bancario frenato dalle pressioni di carattere “etico” sul loro operato. Cossiga, figlio dell’ex presidente della Repubblica, ricopre il posto lasciato libero da Guido Crosetto, è anch’egli un ex parlamentare di area Fdi transitato nel mondo dell’industria della difesa e che ora sostiene la necessità di una banca «completamente dedicata a sostenere le esportazioni e in particolare l’export della Difesa».

Come ha sottolineato il generale Claudio Graziano, ora presidente di Fincantieri, tali società «lavorano sempre in un ambiente geopolitico» strettamente collegate ai poteri dello Stato sul piano politico, militare e diplomatico.

L’intento esplicito di arrivare ad un cambiamento radicale della legge 185/90 e al superamento dei limiti etici nel settore bancario è una battaglia da portare avanti, “a viso aperto”, nei prossimi mesi come afferma il direttore della Rivista italiana di Difesa. La congiuntura sembra favorevole a tale intento tanto da far dire, come riporta il sito Formiche, all’amministratore di Elt Group (ex Elettronica, azienda cardine del settore), che esiste   «un allineamento stellare tra il governo, un ministro (Crosetto) che conosce profondamente i problemi della difesa».

Resta l’incognita della reale consistenza della galassia di gruppi e movimenti chiamati a confrontarsi sulla possibilità di una diversa politica economia e industriale in un contesto segnato dalla tragedia della guerra in Ucraina. Evento che segna un’epoca perché secondo Giuseppe Cavo Dragone, capo di Stato maggiore della Difesa, «ha squarciato la coltre di negatività e mistificazione che avvolgeva l’importanza della Difesa e le necessità di uno strumento militare all’altezza».

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