Ascoltiamoci per favore

Televisione

M’è capitato di seguire in un luogo pubblico, una stazione ferroviaria del Nord Italia, un reality televisivo – non ricordo più quale fosse, se la fattoria, il grande fratello o la talpa – che, lo confesso, mi ha lasciato stupefatto ed esterrefatto. Non tanto per quello che si diceva, tra il banale e lo scurrile, quanto per il fatto che costantemente le voci dei recitanti (perché di realtà in quelle messinscene ce n’è ben poca) cercavano di sovrastarsi le une le altre, rendendo impossibile l’ascolto dell’altro. Seduto accanto a me c’era un giovane che beveva una lattina energizzanteinsieme a quelle scene: m’è uscito un commento dalla bocca sulla stupidità dell’affermazione d’un bellimbusto: «Io esisto se me la faccio», rivolto a una bellona che occupava parte dello schermo. Il giovane si è voltato verso di me e mi ha fatto: «E che ne so io, non seguo le parole. Io seguo solo le immagini». Che tra l’altro non erano proprio caste. S’era poi passati, senza soluzione di continuità, a un qualsiasi telegiornale Raisat che titolava sulla ben nota affermazione papale sul preservativo, pronunciata in volo verso il Camerun un paio di giorni prima. Se ne (s)parlava ancora. Pochi minuti, sufficienti per costringermi ad ascoltare di nuovo il mio vicino: «Quant’è stupido quest’uomo!». Ho provato a chiedergli se avesse saputo anche della fortissima denuncia papale contro le multinazionali farmaceutiche che fanno pagare cifre esorbitanti per le cure anti-Aids in Africa. Risposta: «E che me ne frega?».

 

Storiella metropolitana, mi si dirà. Lo è. Tuttavia questa minima vicenda mi ha costretto a interrogarmi sul declino dell’uso di una delle facoltà umane essenziali per una convivenza sociale decente: parlo dell’ascolto. Siamo immersi in quella che Barthes chiamava «civiltà dell’immagine», che ci dà l’impressione di sapere tutto e quindi di aver ascoltato tutto, mentre «anche l’immagine mente, decontestualizza», come ammette Sartori. Il valore della parola diventa un disvalore, mentre l’apparire schizza in alto nella scala dei gradimenti popolari: «L’immagine ci ha portati alla crisi drammatica della parola», scriveva Cioran già vent’anni fa.

Il passo dalla parola all’ascolto è breve. È purtroppo invalso l’uso di gridare, impedendo di capire quello che l’altro dice. Alle conferenze culturali, in Parlamento o nei salotti di Vespa e Santoro, il singolo ospite non ascolta se non raramente l’altro ospite; al contrario, mentre l’altro parla, si prepara già quello che deve dire quando verrà il suo turno. Osservateli, deputati, intellettuali e personaggi vari: mentre l’altro parla leggono il giornale, rispondono al telefonino, scrivono un sms o un’email, correggono un loro intervento… Fanno tutto, tranne ascoltare. Come al reality, come il mio vicino alla stazione.

Eppure, così facendo si perde una delle chance più grandi che l’uomo abbia a sua disposizione: entrare nell’altro, cercare di capire quel che l’altro pensa per uscirne arricchiti, persino capaci di parlare meglio e con più competenza: «Oggi non si sa più parlare perché non si sa più ascoltare», diceva il poeta Jules Renard.

Ricordo un episodio, anche questo apparentemente insignificante, e tuttavia paradigmatico. Dovevo moderare una conferenza stampa centrata sull’intervento di Chiara Lubich. Partecipava pure un deputato, il quale mi sembrava parlasse di aria fritta, pronunciando frasi fatte. Per celare la mia sottile irritazione, mi ero messo a scrivere qualcosa. Al termine, Chiara mi prese da parte dicendomi: «Non si può ascoltare e fare altro. Se vuoi capire veramente quel che l’altro vuole dire, la sua unicità, devi essere tutto per lui». E, per provarmelo, mi aveva dato una interpretazione affascinante di quanto quel deputato aveva detto. Aveva letto al di là delle parole stesse usate da quel parlamentare.

Morale della favola: nello «smarrimento epocale», come dice Tremonti, o nella «paura liquida», come dice Bauman, imparare di nuovo ad ascoltare potrebbe essere la ricetta giusta per ritrovare un po’ di speranza, non solo nei Parlamenti ma nelle nostre case, negli uffici, alla polisportiva. Bisogna essere ottimisti, come ripete qualche politico, al di là e al di qua dell’Atlantico; ma per farlo è necessario mettere assieme le ricchezze che ognuno di noi porta in sé. Solo insieme dalla crisi tireremo fuori un po’ di speranza, tutti i colori della speranza. Per farlo, però, bisogna ascoltarsi fino in fondo.

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