Aree montane senza investimenti

Un grido di allarme inascoltato sugli interventi necessari per difendere più del 50 per cento del territorio italiano. I buchi incomprensibili del Pnrr e l’azzeramento della Strategia forestale nazionale. Intervista a Marco Bussone, presidente dell’Uncem, Unione nazionale comunità enti montani.
Dissesto idrogeologico Gli angeli del fango

Il disastro avvenuto in Emilia Romagna è solo l’ennesimo ed eclatante avviso di un necessario investimento pubblico sulla tutela del territorio. Non basta piangere le vittime e fermarsi alle polemiche sulle colpe che catturano le notizie di cronaca, almeno fino al sopravvenire di una nuova calamità, mentre migliaia di volontari sono impegnati a spalare il fango.

Per capire il livello di responsabilità dei decisori politici un test importante arriva dalle risposte che verranno date alle istanze puntuali di chi rappresenta una delle aree più affascinanti del nostro Paese, ma da tempo, per varie ragioni, tra le più esposte agli effetti dei cambiamenti climatici. Si tratta dei comuni montani e delle zone geografiche interne, cioè lontane dai centri urbani.

L’Uncem, Unione nazionale comunità enti montani, è un’organizzazione molto attiva che si distingue per la ricchezza di analisi e proposte che nascono dalla conoscenza diretta di un territorio che copre il 54% di quello nazionale e dove vivono complessivamente 10 milioni di residenti.

Cosa propone l’Uncem? Ne abbiamo parlato con il presidente Marco Bussone a proposito del più recente articolato documento intitolato emblematicamente “Fragile come una montagna”.

Nella vostra analisi partite dal fatto che si conoscono molto bene le cause dei disastri che colpiscono sempre più frequentemente il nostro Paese: una combinazione micidiale tra cambiamento climatico che è folle ignorare e l’abbandono dei territori. Ma il Pnrr di cui si discute sempre di più in questi giorni non doveva rispondere proprio a tale emergenza?

Parliamoci chiaro. Il Pnrr ha solo 2,5 miliardi di euro previsti per la prevenzione del dissesto idrogeologico. Ne servono molti di più.

Quanto di più?
Almeno 10 miliardi di euro. Che si devono sommare alle risorse finora non spese, accantonate in diverse leggi di bilancio. Occorre arrivare a investire 10 miliardi per 10 anni, per 100 miliardi di euro complessivi, per poter arrivare a ridurre effettivamente il rischio e fare opera di prevenzione del dissesto idrogeologico.

Come è stato possibile una tale sottostima in fase di elaborazione de Pnrr?
Purtroppo occorre dire che il Piano nazionale di ripresa e resilienza non ha di fatto aggiunto altre risorse ma si è operato un cambio di matrice e di cespite, cioè le risorse stanziate in leggi di bilancio ai Comuni sono state spostate sul Pnrr per un artificio contabile.

Nel documento fate riferimento alla centralità della Strategia forestale nazionale. A che punto di attuazione si trova?
Nella nostra analisi diciamo che la prevenzione del dissesto ha un asse fondamentale nell’attuazione della Strategia forestale nazionale perché Il dissesto si origina anche da foreste non gestite, non pianificate, e che non drenano più. Versanti troppo carichi, foreste non certificate, boschi d’invasione. Senza dimenticare il fatto che spesso siamo davanti a proprietà troppo piccole che comportano una parcellizzazione dei fondi che rischiano di essere abbandonati.

Ma non si tratta di aree ormai marginali nel nostro Paese?
Niente affatto. In Italia abbiamo 11 milioni di ettari di boschi, cioè un terzo della superficie complessiva del nostro territorio, per avere un’idea. Lo stanziamento del Pnrr per la strategia forestale era già inadeguato, circa un miliardo di euro, ma di fatto è stato eliminato con una decisione che reputo gravissima.

Si può avere un’idea della quantità di territorio montano esposto a grave pericolosità per dissesto idrogeologico?
Si tratta di una superficie molto estesa intorno a  20 mila chilometri quadrati. Complessivamente sappiamo che sono 6,7 milioni gli abitanti che vivono in comuni con rischio elevato. Il 58% di questi si trova in montagna. Se non si interviene in maniera adeguata andremo incontro ad un progressivo spopolamento con l’abbandono nelle aree montane con gravi conseguenze sulla sicurezza del territorio. Si pensi ai muretti a secco, dichiarati “patrimonio dell’umanità” dall’Unesco,  che crollano per incuria e ai pezzi di versante non presidiati che franano a valle.

Esistono esempi positivi da seguire a livello internazionale?
Abbiamo prassi molto positive sperimentate già in Italia e che andrebbero ripristinate come “Italia Sicura”, la Struttura di Missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche, creata il 27 maggio 2014 per sbloccare fondi e cantieri delle opere decise per sanare i problemi creati dal dissesto idrogeologico, su tutto il territorio italiano. Nell’arco di tre anni, grazie ad Italia Sicura si ottennero risultati importanti.

Di che numeri parliamo?
Vennero investiti 2.260 milioni di euro in 1.781 opere e vennero sbloccate opere per oltre un miliardo di euro rimaste ferme nelle contabilità locali per inutili lungaggini. Grazie alla Struttura, in 30 giorni i Presidenti di Regione (commissari straordinari al dissesto ) potevano dare tutte le autorizzazioni allo sblocco delle opere che, precedentemente, restavano ferme per intoppi burocratici. La soluzione esiste già. Bisogna agire pragmaticamente per tutelare beni che sono collettivi come avviene in Piemonte dove, a partire dal 1997, una piccola porzione di tariffa idrica pagata viene pagata da tutti i residenti in regione (una cifra modestissima di 4 euro l’anno a famiglia) e destinata ai territori montani per interventi di prevenzione del dissesto.

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