Anziani tra morte e vita

Solitudine e fragilità. Case di riposo non adeguate. Eutanasia.
Operatori, educatori e psicologi delle case di cura stanno “reinventando” il loro modo di stare con gli anziani, per alleviare solitudine e paura.. (AP Photo/Jean-Francois Badias)

Una delle conseguenze più drammatiche della pandemia sono le notizie sulle tante morti di anziani ricoverati nelle terapie intensive e soprattutto nelle case di cura nel mondo. Morti solitarie, lontano dai propri cari, tra fragilità e abbandono. Ne è seguito un dibattito, anche aspro. Nel frattempo, gli anziani cominciano a guardare con sospetto gli ospedali, per il timore di essere curati (o non curati) come persone di serie B, non degne di vivere.

Invisibili
Il problema, però, non è nato ieri, spiega Ferdinando Garetto, medico, esperto di medicina palliativa a Torino. «In questo momento di pandemia, improvvisamente gli “invisibili” sono diventati visibili. Ma c’erano anche prima. Non possiamo dire che non conoscevamo la solitudine degli anziani, le risposte inadeguate della Società, la disgregazione (anche geografica) delle famiglie. L’imprevisto sovraffollamento delle terapie intensive ha ricordato uno dei drammi etici della medicina delle emergenze: quando ci si trova di fronte al dilemma di chi curare tra due persone, per esempio avendo un solo ventilatore, bisogna scegliere chi ha più probabilità di farcela. Non è – almeno in Italia – una “selezione” a priori basata sull’età.

Tutti i modelli ritenuti finora “virtuosi” in una sanità guidata da principi economici (aziendalizzazione, chiusura degli ospedali, taglio dei posti letto, ricoveri brevi, iper-specializzazioni con priorità agli interventi più “redditizi”, gestione dell’anzianità e della fragilità nelle Rsa con tagli progressivi all’assistenza territoriale) si sono dimostrati la causa della crisi. Le risposte sono conosciute da tempo: co-housing, investimenti a supporto delle famiglie che si fanno carico di bambini e anziani, case della salute.

È tutta da costruire una vera assistenza domiciliare che non sia solo mettere una flebo o fare un prelievo, ma una presa in carico globale. Un modello ottimo è quello delle cure palliative: équipe flessibili, centrate sui bisogni, orientate al soggetto in cura e alla sua famiglia, con livelli assistenziali sostenibili, di intensità modulabile. In più, l’integrazione con il Terzo Settore, possibile anche nelle Rsa».

Fragilità
Valter Giantin, medico-geriatra di Padova, sottolinea gli aspetti psicologici. «Gli anziani in queste strutture vivono isolati, senza un affetto vicino con cui confrontarsi, sempre più smarriti e preoccupati dal personale mascherato, indaffarato nel gestire l’emergenza. Vengono a mancare contatti fisici, carezze e abbracci dei familiari e lo stesso personale è più distaccato, meno caloroso, talora anch’esso impaurito dalla minaccia di contagio.

Ci sono azioni che possono aiutare a vincere la solitudine in queste strutture: molte di esse si sono dotate, anche con contributi privati, di smarthphone e tablet, con chiamate almeno settimanali, che mettono in contatto visivamente gli ospiti con i loro familiari. Operatori, educatori e psicologi stanno reinventando il loro modo di “stare” con loro, per esempio puntando su una certa “quantità” di tempo trascorsa con ogni ospite e su metodi per far loro rivivere il rapporto con la famiglia (foto, video, registrazioni sonore). È questo il momento per ripensare il domani partendo dalle criticità che l’oggi ci presenta».

Gli anziani cominciano a guardare con sospetto gli ospedali, nel timore di essere trattati come persone di serie B. (AP Photo/Natacha Pisarenko)
Gli anziani cominciano a guardare con sospetto gli ospedali, nel timore di essere trattati come persone di serie B. (AP Photo/Natacha Pisarenko)

Eutanasia
Infine un accenno a un articolo di Kevin Yuill e Theo Boer (bioeticisti), uscito a marzo sul sito Spiked, che notava un fatto: in queste settimane di pandemia, la clinica che in Olanda fornisce l’eutanasia e il suicidio assistito ha interrotto le attività. Questo centro nel 2019 ha posto fine alla vita di 898 pazienti affetti da tumori, problemi psichiatrici e demenza precoce. Anche nel vicino Belgio, in questo momento ci sono pochi medici disponibili per l’eutanasia, perché sono tutti impegnati a salvare vite. L’articolo concludeva che in questi mesi, in cui abbiamo fatto enormi sacrifici per preservare ogni vita, non importa quanto fragile e vulnerabile, forse abbiamo anche scoperto che l’eutanasia non è così necessaria.

Erik Hendriks, produttore tv belga, commenta: «Questo articolo sull’eutanasia mi ha fatto ripensare a una conversazione che ho avuto con una giovane studentessa alcuni giorni fa. Lei affermava che tanti studenti della sua generazione si sentono molto responsabili per gli anziani. Seguono rigorosamente le regole imposte dalle autorità, in modo da non rischiare di contagiare qualche persona anziana, che “potrebbe essere mia nonna”. E un altro studente aggiungeva: “I miei nonni non vivono più, ma gli anziani sono troppo importanti per lasciarli andare”. Mi hanno impressionato queste affermazioni di giovani. Fanno sperare per il futuro. In questo periodo di pandemia, forse stiamo riscoprendo l’essenziale, anche in Paesi come il nostro, dove l’eutanasia è diventata una cosa banale».

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