Antigone, quel conflitto insanabile tra “ragione” privata o di stato

Un teatro specchio della società è quello del regista Massimiliano Civica che, nell’affrontare la terribile questione posta dalla ribellione di Antigone alle leggi della Polis, ce la restituisce oggi per evidenziare i fenomeni politici della nostra contemporaneità

Antigone, figlia di Edipo, vuole dare pietosa sepoltura alla salma del fratello Polinice, morto combattendo contro la propria patria, anziché lasciarlo in pasto ai cani e agli uccelli; ma Creonte, re di Tebe, ne proibisce il seppellimento come monito. Lei, nipote del sovrano e promessa sposa al di lui figlio Emone, trasgredisce ed è condannata a morte. Da lì, in seguito, le sventure famigliari per Creonte. Con le sue limpide parole di resistenza a una disposizione tirannica, Antigone è, e rimane, la tragedia necessaria dell’opporsi a un potere autoritario, di ieri e di oggi.

Dove sta la ragione? Nell’individuo o nello Stato? Il tema centrale per Sofocle sta proprio nella lacerazione profonda di questo conflitto irresolubile – e quindi tragico – di due visioni completamente antitetiche e non certo nello stabilire da che parte siano i buoni e da che parte i cattivi. Dalle rielaborazioni novecentesche – da Brecht a Anouilh, passando per il Living Theater che rilanciava il messaggio brechtiano nel cuore della guerra del Vietnam –, gli aspetti politici-ideologici, morali e religiosi, della tragedia di Sofocle, indagata infinite volte, sono innegabili. Il conflitto mortale, che nella tragedia si enuncia e si consuma sino alle più catastrofiche conseguenze, fra le ragioni della pietà e quelle della convenienza politica è qualcosa che non ha mai smesso e mai smetterà di concernere la storia del mondo e, insieme, la coscienza di ciascun individuo, data l’assoluta perennità col passato prossimo e con l’oggi. I contesti culturali sono poi quelli che determinano le valenze ideologiche dello scontro tra individuo e Stato.

Un teatro specchio della società è quello del regista Massimiliano Civica che, nell’affrontare la terribile questione posta dalla ribellione di Antigone alle leggi della Polis, ce la restituisce oggi per evidenziare i fenomeni politici della nostra contemporaneità alla luce della questione del rapporto fra l’identità e il carattere di un leader – e il popolo che rappresenta –, soggetto al pericolo di procurare danni al bene comune.

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Una scena vuota, immersa in una costante semioscurità illuminata al centro da un grande quadrato di luce – che interpretiamo come un ring –, è il luogo del mito (e della mitologia del teatro, adatto per una tragedia già avvenuta), dove riecheggiano solo le parole e i corpi degli attori. Lo stile di Civica, che ammiriamo, è quello di sempre: asciutto, scabro, teso a dare forza a tutto quello che si dice, senza altre distrazioni. E le parole, chiare, taglienti, arrivano eccome. Le udiamo, e “vediamo”, sempre rivolte verso di noi spettatori-concittadini ai quali spesso si orientano palesemente i personaggi come a interpellarci ponendo le domande affioranti dalle diatribe, e renderci responsabili. A vibrarle, le parole, sono 5 perfetti interpreti; Monica Piseddu (Antigone), Oscar De Summa (Creonte), Marcello Sambati (Corifeo), Francesco Rotelli (nel doppio ruolo di guardia e di Emone), Monica Demuru (nelle triplici vesti di Ismene, Tiresia, Euridice). Li troviamo, sempre presenti, sul fondo della scena seduti su una panca dalla quale si staccano per entrare, di volta in volta, nell’agone e tornare al loro posto uscendo dai bordi del quadrato di luce. E ogni volta, con un gesto sospeso, stendono il braccio sopra il fantoccio di Polinice steso a terra che leggermente s’illumina. Di quel manichino, sdraiato immobile per tutto il tempo della rappresentazione, risalta l’uniforme grigia e i lunghi stivaloni da divisa fascista. Questa si contrappone – e la lettura è chiara – agli abiti da partigiani, con tanto di stelle rosse, fazzoletti al collo e anfibi sporchi – di chi è reduce da una battaglia – sia di Creonte, qui chiamato Comandante, che del figlio Emone e della guardia.

La traduzione del testo e l’adattamento dello stesso Civica, vuole quest’ultimo – che denuncia il gesto ribelle di Antigone e poi la trascina davanti al re – recitare in un romanesco popolare che strappa sorrisi. E qualcosa dice questa scelta dialettale rimandando, forse, ad un cinismo connaturato che guarda ai fatti senza troppo coinvolgimento. Vestono invece eleganti le sorelle Antigone e Ismene, e in abito da cerimoniere il Corifeo. Lontano da ogni psicologismo o enfasi espressiva, il carattere di ciascuno è ben stagliato, o meglio lo è la loro funzione. E se l’Antigone della Piseddu è inizialmente arrogante con la sua spavalderia anche nella postura fisica e con il sorrisetto sarcastico muovendosi con strafottente espressività davanti a Creonte, saprà mutare credibilmente la sua fisicità con un grido doloroso quando sul punto di essere sepolta viva, l’impeto naturale della giovinezza, lo stesso istinto di conservazione le faranno lamentare la buia sorte incombente.

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È un grido soffocato, invece, quello di Creonte che chiude lo spettacolo. Impietrito dal dolore per aver appreso della morte del figlio che si toglie la vita davanti alla reclusa amata, ammette i suoi errori: «Ho sbagliato. Perché sono stupido e testardo. I loro cadaveri sono un monumento ai miei errori. Ho ucciso mio figlio. Era solo un ragazzo. Ma non è morto perché era impulsivo e non ragionava. È morto perché suo padre è un ragazzo impulsivo che non ragiona». E dopo essere stato informato del suicidio anche della moglie Euridice, l’ammissione della sua colpa è ancora più dilaniante: «Io l’ho uccisa. Cacciatemi. Mandatemi via. Sono uno che non è più nessuno. Infilatemi una spada nel petto. Non voglio vivere un giorno in più. Ho voglia di morire». Ma il Corifeo lo invita a guardare verso il popolo: «Dopo morirai. Quando sarà. Ora devi occuparti del presente. Devi occuparti di noi. È compito tuo. Adesso puoi e devi governare». Disponendosi nell’atto oratorio alzando il braccio e aprendo la bocca nel tentativo di dire qualcosa, non riesce a emettere nessun suono. «Ora ho capito. Che fatica inutile è la vita», aveva sentenziato poco prima. Civica nella sua traduzione del testo mette in luce il fatto che Sofocle accomuna Antigone e Creonte in una identica colpa: quella di avere la presunzione di essere eccezionali, di essere migliori di tutti gli altri, ovvero di essere, per intelligenza e qualità umana, “fuori dalla norma”. Il loro destino tragico è stabilito dal loro carattere superbo e dalla loro incapacità di dare ascolto alle ragioni degli altri.

“Antigone” di Sofocle, traduzione e adattamento Massimiliano Civica

con Oscar De Summa, Monica Demuru, Monica Piseddu, Francesco Rotelli, Marcello Sambati, costumi Daniela Salernitano

luci Gianni Staropoli

fantoccio realizzato da Paola Tintinelli

Produzione Teatro Metastasio di Prato

A Bologna, Arena del Sole, fino al 19/1

a Lugano, Lac, il 21 e 22/1

a Roma, Teatro India, dal 18 al 30/4

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