Andersen o la gioia di narrare

In prima traduzione italiana “Le due baronesse”, un romanzo del 1848 del celebre scrittore danese, Hans Christian Andersen

Mago della fiaba, per la quale è internazionalmente celebre, Hans Christian Andersen (1805-1875) è meno noto, almeno in Italia, come autore di opere teatrali, raccolte poetiche, scritti satirici ed umoristici, diari di viaggio, biografie e autobiografie (quattro!), mentre tra i suoi romanzi circolanti da noi l’ultimo apparso (forse il migliore, del 1848) è Le due baronesse, in prima traduzione italiana per i tipi di Rusconi.

Con questo delizioso titolo la cui protagonista Elisabeth conoscerà difficoltà e peripezie, Andersen ci trasporta nella sua patria, la Danimarca, facendoci rivivere le atmosfere di un antico maniero a Svendborg in Fionia, l’isola in cui è nato, e la gente semplice di altre isole, le Halliger, appartenenti al gruppo delle Frisone settentrionali, senza trascurare una puntata nella capitale Copenaghen.

Qui non c’è personaggio che non abbia qualcosa da narrare, e chi non racconta si dimostra comunque buon ascoltatore, facile a lasciarsi rapire dalle narrazioni altrui. Racconta l’anziana ed eccentrica baronessa Dorothea che in anni lontani aveva cacciato dal maniero in cui era nata Elisabeth ancora bambina per la sua inopportuna curiosità. Storie favolose riguardanti le Halliger raccontano i genitori adottivi presso i quali cresce la piccola. Racconta la stessa Elisabeth, che a sua volta, s’incanta ai racconti di viaggi e avventure marinaresche di cui è prodigo Elimar, il suo primo amore. Raccontano sia colei che le fece da balia sia il calzolaio suo marito. E racconta anche il cancelliere che ospita la giovane dopo la sua fuga dal protetto nido isolano per consegnare a Copenaghen una supplica al re Frederik VI.

Quando poi la nostra eroina non vibra ai tanti racconti orali, si nutre di quelli scritti: ammiratrice appassionata dei romanzi storici di Walter Scott, non ha forse preso spunto da uno di essi per avventurarsi, sola, nella capitale danese, nel tentativo di salvare il suo innamorato accusato di omicidio?

Finché lei stessa, timidamente, sente il bisogno di esprimere su carta quello che le urge dentro. «Era una piccola novella, tutta incentrata sui suoi primi ricordi d’infanzia, il pezzo di palude che il mare aveva sospinto a terra. Ne ricreava il ricordo a parole. Una casa dirupata dell’isola con due bimbetti in un angolo, un maschio e una femmina. Crescevano. Erano Elisabetta e Elimar. Era la vita della loro infanzia, era la loro sofferenza, la loro angoscia di quando la marea li aveva sorpresi e l’acqua era salita loro fino al petto. Tutto era tratteggiato in maniera vivace, il loro spavento e il rischio della morte. E non era Jap-Lidt-Piders a venire a soccorrerli, ma il superbattello, l’enorme battello fantasma che li raccoglieva per trasportarli nell’oceano fino al Paese dei Mori e in India…».

Altro elemento base del romanzo è la fiducia di Elisabeth nel Signore, la cui Provvidenza – sempre presente nella trama romanzesca – condurrà tutto a buon fine: fil rouge come quello inserito in ogni gomena proveniente dall’Inghilterra a indicare l’appartenenza dell’oggetto alla Corona britannica.

Nel personaggio dell’ingenua ma determinata ragazza curiosa di tutto, il figlio di un ciabattino e di una lavandaia che era Andersen ha trasferito tanta parte di sé – una vita di stenti prima di trovare la sua strada e raggiungere il successo letterario. In Elisabeth, divenuta scrittrice, egli vede realizzato quello che egli considera compito dello scrittore: «Aprire gli occhi alla poesia nascosta nella vita quotidiana, che si svolge intorno a noi, mostrare il filo invisibile che, nella vita di ogni essere umano, ci ricorda che siamo una proprietà di Dio, farci vedere quanto vi è di singolare nella natura e negli uomini, e riconoscere l’impronta di Dio anche là dove essa è travestita da pagliaccio e indossa degli stracci».

Scontato è, per Elisabeth, il lieto fine: sposerà infatti non lo scapestrato Elimar, ma Herman, il nipote di Dorothea, diventando così la seconda baronessa di Svendborg. Non è però l’unica protagonista di questa fiaba incantevole: lo è pure la meravigliosa natura della Danimarca, con le sue foreste, i suoi scenari marini, e principalmente quelle Halliger, «isole tranquille nel tempestoso Mare del Nord», presso la costa occidentale dello Jutland, che costantemente rose dall’assalto dei flutti costringono gli abitanti ad un continuo lavorio di tutela delle loro coste.

Il romanzo ci restituisce la gioia di narrare che fece di Andersen un maestro del genere, in un’epoca dove il libro era tenuto in gran conto e, anche fra la gente del popolo, narrare o ascoltare racconti rientrava tra i bisogni vitali. Oggi in cui tv ed eccesso di comunicazione sembrano aver spento capacità narrativa e attitudine ad ascoltare, dobbiamo riconquistarcele a forza di buone letture o di conversazioni con qualche saggio esperto di vita. O facendo amicizia, appunto, con autori come Andersen.

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