Ancora e sempre Otello

Curiosa coincidenza sulla scena romana. Nell'arco di un mese si sono succeduti tre diversi allestimenti dell'Otello di Shakespeare.
Otello (Hell)
L’allestimento del regista Arturo Cirillo, con un intenso Danilo Nigrelli nel ruolo del protagonista, è una messinscena abbastanza tradizionale, al teatro Eliseo. Invece le due riprese dello scorso anno, attualmente in corso, indagano la storia del moro e di Desdemona, rimescolandone la scrittura scenica: “Hell. Un’altra storia del Moro di Venezia” con la regia di Francesco Giuffrè, e “Otello” del regista Claudio Autelli. Riproponiamo le recensioni di questi due ultimi, in scena rispettivamente al Piccolo Eliseo e al teatro India.

 

“Hell. Un’altra storia del Moro di Venezia”. Al Piccolo Eliseo di Roma fino al 7 febbraio. Davanti a riallestimenti di classici, pieni di propositi e scarsamente messi a fuoco, questa rielaborazione dell’Otello operata da Francesco Giuffrè e da Riccardo Scarafoni, ha un’idea drammaturgica forte e precisa, pur con qualche ingenuità drammaturgica e momenti di debolezza registica. L’immoralità dell’uomo – per l’amore senile, innaturale, del protagonista, un Otello molto anziano che vive il suo folle amore per una Desdemona fanciulla – presente nel testo, trova nell’oggi una sua inquietante attualità.

 

Le parole sfrondate dei cinque personaggi e le loro azioni circoscritte, sono calate in un contesto da bunker dove il Moro ha condotto il suo popolo in una sorta di felice auto esilio per salvaguardare il proprio sentimento. Mentre da fuori provengono incessanti rumori di spari ed esplosioni – che solo in ultimo cesseranno improvvisamente dopo che la tragedia si compie con un inedito finale -, questi autoreclusi vivono in un utopico mondo circense che presto conoscerà il dramma innescato da Iago (un subdolo Riccardo Scarafoni).

 

Qui è determinante la figura di Cassio (un Giorgio Marchesi di crescente espressività e di convincente profondità di toni), pretesto del precipitare della gelosia nei suoi confronti, costretto per punizione ad uscire dal sotterraneo per andare a morire nel mondo delle guerre. Se Emilia è figura muta e sensibile, Desdemona è un’ingenua fanciulla svolazzante, una felliniana Gelsomina colpevole di amare il suo Zampanò. Questi, Otello, impersonato da Mauro Mandolini, vive nell’incubo ricorrente che vede materializzarsi sotto i suoi occhi le ossessioni della gelosia, con le voci delle malelingue che lo attanagliano – gli stessi attori nascosti dentro delle giacche sospese -. A parte l’inizio, che indugia a lungo con una sequenza silenziosa e senza ritmo, lo spettacolo acquista forza nei dialoghi grazie alla bravura degli interpreti.

 

 

 “Otello”. Al Teatro India fino al 7 febbraio. C’è qualcosa di nuovo nell’Otello del regista Claudio Autelli, non tanto perché il Moro non è più nero, ma dipinto di biacca. Bensì per il lucido e sintetico sguardo che descrive un rovinoso percorso verso la tragedia dei sentimenti. L’opera shakespeariana vira in chiave comica, declina in dramma, ritorna buffa, e chiude in sciagura. Tutta concentrata in un interno domestico, festoso, con palloncini e trombette, e i personaggi quasi ubriachi che scandiscono il tempo con continui brindisi. Il dramma sembra condensarsi tutto in un interminabile giorno: quello della festa di nozze. Che celebrerà anche una cerimonia di morte, dove l’agnello sacrificale sarà Desdemona.

 

Un banchetto imbandito è il luogo dove tutto nasce, attorno a cui si trama e sotto cui ci si nasconde, o si sussurrano i propri pensieri. È l’ara sacrificale dei sentimenti, dell’inadeguatezza dei rapporti, dei fraintendimenti e delle menzogne. Sopra quel tavolo si consuma l’immolazione dell’innocente Desdemona nella potente immagine finale che la vede impiccata ad un drappello di palloncini colorati e col lungo abito bianco che scende fino a terra da farla sembrare sospesa. Ed è densa d’immagini la messinscena, animata di un’inventiva struggente e vitale.

 

Forza che risiede anche nella sintesi operata sul testo (sfrondato nella traduzione di Salvatore Quasimodo), al quale però gioverebbe un ulteriore riduzione per comprimere nelle azioni e nelle immagini altre parole. Come la folgorante sequenza del fatidico fazzoletto. Per mostrarci la crescente gelosia che divora il Moro, esso si moltiplica e s’ingrandisce sempre più, passando dalle mani del manovratore Iago a quelle dell’inconsapevole Cassio, per finire in quelle del tormentato Otello. Cinque personaggi bastano a condensare eventi e sentimenti, a dare corpo e voce ad azioni mimiche, a monologhi amplificati al microfono e accompagnati dal suono di una chitarra elettrica, a dialoghi stralunati, a figure vaneggianti.

 

E sono bravissimi i generosi attori – Matilde Facheris, Lino Musella, Woody Neri, Irene Serini, Francesco Villano – nella recitazione severa dei toni e oscillante nel grottesco, fra cui va menzionato il protagonista, Francesco Villano. Morirà anche lui, dopo aver constatato l’inganno, ma spegnendo subito la sua vendetta in una resa che sembra lasciare posto alla pietà.

Si respirano intense atmosfere che ricordano il teatro del regista lituano Nekrosius (l’uso delle musiche, certi giochi di luce, gli spruzzi d’acqua nell’aria), e quello di Emma Dante (il ritmo nello spazio scenico, l’utilizzo degli oggetti, la dimensione familiare), finanche Carmelo Bene (nei toni dell’incipit). Sono suggestioni e citazioni attinte che si possono perdonare al giovane regista, incamminato comunque in un percorso personale che mostra già una sua peculiare cifra espressiva.

 

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