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Anche gli olivi sono vittime della guerra

di Bruno Cantamessa

- Fonte: Città Nuova

Bruno Cantamessa Autore Citta Nuova

Amo gli alberi di olivo. L’olivo ha influenzato la vita dei popoli mediterranei al punto da essere considerato l’albero della civiltà, oltre che un simbolo universale di pace. Oggi in Terra Santa anche gli olivi sono vittime della guerra

Palestinesi che cercando di fermare i buldozer istaeliani Archivio Ansa ALAA BADARNEH ANSA-CD

Secondo il Ministero della Sanità libanese, dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, un anno fa, in Libano oltre 270 persone sono state uccise e circa 850 ferite dalle operazioni militari.

Se questa è la situazione su uno dei fronti di tregua, anche a Gaza e in Cisgiordania le cose non vanno diversamente: tregue che restano conflitti senza fine.

Ciò che vorrei raccontare non sono però i numeri di questo stillicidio, ma un sentimento più vasto: la compassione per le vittime di tutte le parti in conflitto si estende anche alle sofferenze di una terra che i cristiani chiamano santa anche perché supera e unisce le parti che la compongono.

Come la maggior parte delle persone nate sulle sponde mediterranee, amo gli alberi di olivo. L’olivo ha influenzato la vita dei popoli mediterranei al punto da essere considerato l’albero della civiltà, oltre che un simbolo universale di pace: una storia che è iniziata al tempo dei Fenici, 3.500 anni fa. Per questo amore viscerale e ancestrale, che pervade generazioni, popoli, culture e religioni, sento una profonda sofferenza quando gli olivi diventano, anche loro, vittime innocenti della guerra.

Mi ha toccato profondamente il racconto di quanto stava accadendo nei giorni scorsi nel Libano meridionale, terra di millenaria civiltà dove oggi vivono molti sciiti, ma anche cristiani. Ne parla nei suoi reportages un giornalista libanese che ho conosciuto e stimato negli anni in cui ho vissuto a Beirut: Fady Noun, che da tempo collabora anche con il sito AsiaNews del Pime. Fady riferisce (AsiaNews, 7 novembre 2025) di un colloquio con Katia Kahil, insegnante di francese al Liceo di Khyam, una municipalità del governatorato di Nabatieh, a 10 Km dal martoriato confine fra Libano e Israele. Nella regione, il mese di novembre è da sempre «la stagione della raccolta delle olive e dei frantoi, il momento in cui ci si ritrovava in famiglia e i bambini imparavano i gesti dei nonni».

Lo racconta Oum Khalil, abitante di Marjayoun, che aggiunge: «È come se la guerra avesse spezzato il filo di una tradizione millenaria. Oggi i miei alberi più belli sono dietro una barriera invisibile. Li vedo, ma non posso più toccarli. È come vedere il proprio figlio prigioniero». Più di 60 mila olivi sono stati distrutti dalla guerra nel Libano meridionale: «Quest’anno abbiamo perso tutto – racconta Rose, di Deir Mimès –. Gli alberi non vengono più potati, le olive seccano sui rami e quasi nessuno osa avventurarsi negli uliveti a causa delle mine». E Hassan Chehit, sindaco di Kfar Kila, conferma con tristezza: «Molti terreni sono stati rasi al suolo o bruciati, altri sono semplicemente inaccessibili. Quest’anno non vi è quasi nessun raccolto».

Anche poco più a sud, in Cisgiordania, gli olivi in questo novembre piangono insieme ai loro coltivatori palestinesi, ai quali i coloni impediscono in tutti i modi la cura degli alberi e la raccolta delle olive.

Riferisce ilpost.it del 3 novembre: «Fino al 2011 i campi di ulivi riempivano circa il 57 per cento dei terreni agricoli fra Cisgiordania e Gaza. Gli alberi di ulivi erano quasi 8 milioni ed erano la principale fonte di reddito per circa 100 mila famiglie palestinesi. Oggi, per via degli attacchi dei coloni, agli agricoltori è spesso impedito di accedere ai campi, soprattutto se sono vicini a insediamenti israeliani, o all’acqua necessaria per irrigarli. Gli episodi di vandalismo, con alberi tagliati o bruciati, sono frequenti: 4 mila alberi sono stati danneggiati solo nel 2025, secondo dati delle Nazioni Unite. In alcuni casi i campi sono stati distrutti con i bulldozer».

Ma c’è anche un altro posto che era famoso per i suoi uliveti. Si tratta di Rameh, oggi una cittadina arabo-israeliana a metà strada fra Acri e il lago di Galilea, a 25 Km dal confine con il Libano. Metà degli abitanti (circa 8 mila) sono cristiani, un terzo drusi e il resto musulmani sunniti. Di Rameh parlava alcuni anni fa (2021) Nicolò Delvecchio su tag43.it raccontando che prima della guerra del 1948 gli olivi di Rameh producevano 250 mila litri d’olio all’anno. Un olio eccellente, il migliore al mondo secondo la gente del posto, che veniva esportato anche in Libano e Siria.

Dopo la guerra e la nakba palestinese, la terra venne espropriata e i confini con Libano e Siria chiusi. Nasab Hussein, nativa di Rameh, ha raccontato queste vicende nel suo libro Rameh: an untold story (2020). L’esproprio della terra e la chiusura dei confini con Siria e Libano, hanno ridotto drasticamente nella zona il numero dei lavoratori agricoli e fortemente diminuito l’economia: «La storia delle nostre olive e quella politica non sono separate», commentava Nasab.

Dal 1948 al 1966, inoltre, i militari hanno limitato i movimenti degli agricoltori, i permessi per accedere ai loro campi. Gli olivi sono stati trascurati, i raccolti sono diminuiti e i prezzi sono crollati. Adesso Rameh è solo una cittadina della Galilea, e nessuno tiene più il conto di quanto olio venga prodotto nelle sue campagne. Solo la fama della sua qualità è rimasta.

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