Alla scoperta del pensiero di Aldo Moro

Perché Aldo Moro è stato così scomodo che solo una recente commissione di inchiesta parlamentare ha riconosciuto nelle cause della sua uccisione “una rilevante dimensione internazionale”? Un recente libro è dedicato al pensiero di uno dei padri della Costituzione e portatore di un cristianesimo integrale chiamato a misurarsi con l’impegno politico. Intervista a Leonardo Brancaccio, autore di “Aldo Moro, il politico, il professore, il filosofo del diritto” Ecra edizioni
Aldo Moro,concessione Archivio Flamigni

Di Aldo Moro appare sui media, ogni 9 maggio data della sua morte violenta, l’immagine del suo corpo, inerme e senza vita, deposto in un auto nel centro di una Roma blindata dalle misure di sicurezza. Restano aperte le domande sulle ragioni e gli autori diretti e indiretti della sua uccisione, dopo la strage avvenuta il 16 marzo dei carabinieri e poliziotti (Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino) addetti alla protezione del presidente della Democrazia Cristiana.

Nella storia della nostra Repubblica esiste un prima e dopo 9 maggio 1978, data che coincide con l’uccisione di Peppino Impastato da parte della mafia collusa con il potere politico.

È importante capire oggi l’importanza della figura di Moro, padre costituente e statista internazionale ricordato in questi giorni per il ruolo avuto nella conferenza di Helsinki del 1975 di dialogo e cooperazione in Europa.

Un politico portatore di un pensiero originale, capace di esercitare una linea di azione non subalterna a logiche di schieramento imposte dall’alto e perciò scomodo.

Viene incontro a tale esigenza di approfondimento un recente libro “Aldo Moro, il politico, il professore, il filosofo del diritto” edizioni Ecra scritto da Leonardo Brancaccio, e frutto di una tesi di dottorato conseguita presso l’istituto universitario Sophia di cui Brancaccio è, tra l’altro, come avvocato, responsabile dell’ufficio legale oltre a ricoprire il ruolo di Segretario generale della scuola di economia civile.

Partiamo direttamente dal “caso Moro” per capire a che punto di verità si può dire si sia arrivati, almeno, a livello di Commissione parlamentare d’inchiesta. Cioè quale è stata la ragione non casuale dell’assassinio di questo “martire della Repubblica”?
Il 13 dicembre 2017 la Camera dei deputati ha approvato all’unanimità (con un astenuto) la Relazione sull’attività svolta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, istituita con legge 30 maggio 2014, n. 82 (c.d. Commissione Moro-2): la Commissione ha fatto significativi passi avanti in direzione della verità e, come si legge nella Relazione, “… consegna al Parlamento e al Paese un lavoro che non è esaustivo, ma che corrisponde alla logica della legge istitutiva e che rende molto più chiaro uno degli eventi più drammatici della storia della Repubblica italiana…”. In un passaggio finale delle considerazioni conclusive della Relazione si legge: “Un altro elemento che si evidenzia con chiarezza è che non si intravede una regia unica tra i protagonisti attivi o omissivi della vicenda Moro. Emerge, al contrario, come si sia innestata sull’operazione militare delle Brigate rosse l’azione di una pluralità di soggetti, che per ragioni diverse, influirono sulla gestione e tragica conclusione della vicenda … Alla luce delle indagini compiute, dunque, il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale”.

Parliamo di Moro come studioso e docente universitario. Tutti coloro che lo hanno avuto come professore mantengono il ricordo di grande umanità e sapienza di quest’uomo di cultura che ha ricoperto un ruolo centrale nella vita politica italiana. Zamagni nella prefazione al libro sottolinea l’importanza per un cristiano di non fermarsi al prepolitico. Quale è stato tale passaggio in Moro?
Il giovane Aldo Moro, a cavallo fra gli anni 30’ e 40’ del secolo scorso, è stato un attivo frequentatore, e poi dirigente (locale e nazionale), delle associazioni cattoliche Azione cattolica e FUCI. In una pubblicazione curata da Francesco Maria Biscione si legge una bellissima testimonianza di Moro in merito al suo accostamento alla politica: “io sono, come tanti altri, entrato nella DC con la spontaneità e l’entusiasmo di una scelta, più che politica, religiosa, dal fervido ambiente associativo dell’Azione cattolica, ed in specie della FUCI … . Si era nell’ambito di quella che si chiamava la dottrina sociale della Chiesa… In quel fervore iniziale c’era più fede che arte politica e tale stato d’animo restò per molti a lungo, tanto che si può parlare di quella come una DC religiosa di contro a quella laica che sopravvenne poi”.

Papa Francesco, nella Lettera enciclica “Fratelli tutti”, ricorda che “Per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune”. Aldo Moro ha incarnato ed è stato testimone della migliore politica, auspicata oggi da Papa Francesco e indicata, da Papa Pio XI il 18 dicembre 1927, come “campo più vasto della carità”.

Nel libro sono messe in evidenza le radici del pensiero di Moro come filosofo del diritto. In che modo la sua concezione del diritto (“la persona prima di tutto”) ha inciso nella nostra Costituzione?
Nel me­morabile intervento svolto nella seduta dell’assemblea costituente del 13 marzo 1947 Aldo Moro afferma «Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana libera­mente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità».

Il prof. Renato Dell’Andro (allievo di Moro sin dall’anno accademico 1940- 41 e poi suo assistente) conferma che le considerazioni che Moro prospetta in occasione dell’approvazione – ad esempio – del testo dell’art. 2 della Costituzione (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…”) sono proprio il frutto degli studi e delle lezio­ni di Filosofia del diritto: se la nostra Costituzione è la prima nel mondo che afferma la priorità rispetto allo Stato, non soltanto dei diritti dell’uomo come singolo, ma anche nelle formazioni sociali in maniera esplicita, ciò lo si deve – afferma Dell’Andro – proprio a Moro.

Moro affronta la questione del conflitto tra giusnaturalismo e kelsenismo? Come si può spiegare questa distinzione importante ad un pubblico non esperto?
Il professore pugliese, nelle sue lezioni di Filosofia del diritto, richiama il dualismo tra diritto naturale e diritto positivo facendo riferimento alla concezione tradizionale del diritto naturale secondo cui il diritto positivo si oppone al diritto naturale e, da quest’ul­timo, viene giudicato: Moro non accetta questa concezione tradizionale del diritto naturale e ritiene necessario appor­tare alcune rettifiche.

Per Moro “il diritto naturale non può non essere in qualche misura positivo; esso si risolve infatti, ben lun­gi dal perdersi in una astrazione, nelle concretissime azioni che si svolgono in una determinata esperienza sociale, ispi­rate alle esigenze universali ed irriducibili della coscienza umana, incidenti su altre azioni nella tipica forma di “socializzazione”, eventualmente operando una reazione sociale…”.

Come ricorda Dell’Andro, Aldo Moro combatte il positivismo giuridico, ma lo com­batte alla sua maniera, non tornando sic et simpliciter al puro jus naturalismo: è l’opposizione alla concezione di Hans  Kelsen, trionfante nella sua epo­ca. Per Kelsen non esiste che la rilevanza (ogni fatto è giuridico, perché rileva, perché dà effetto giuridico; e la norma è concessione tra fattispecie e conseguenza). Moro con tanto garbo – nell’antigiuridicità – la critica in maniera se­vera; nelle lezioni di filosofia del diritto, al contrario, accoglie l’operazione tecnica kelseniana, ma rivendica l’ontologia del di­ritto, e pertanto riconduce il diritto alla matrice naturale, all’eti­ca generale della quale il diritto non è che una manifestazione.

Il libro si chiude con una citazione del giovane Aldo Moro nella sua professione di un “cristianesimo integrale, temporale ed eterno”. Cosa ha voluto dire concretamente nella sua vita?
In questi ultimi anni di studio e ricerca, ho compreso che Moro nella sua vita e, soprattutto nell’esercizio delle sue attività, è stato un eccellente formatore, educatore, mediatore. In Moro il “Pensiero” è “Azione” come l’ “Azione” è “Pensiero”.  È molto bella la definizione di felicità proposta nelle sue lezioni di Filosofia del diritto: «Infatti la felicità è null’altro che la più o meno limpida co­scienza della realizzata pienezza della propria vita in una perfet­ta aderenza a tutti i valori che la sollecitano nel suo svolgimen­to e nella realizzazione dei quali essa si fa realmente sé stessa. Null’altro dunque significa idealmente la felicità, se non lo slan­cio dell’amore, che abbiamo visto essere il vero farsi della vita».

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