Alla larga dal Krakatoa!

Fascino e pericolo del vulcano indonesiano. La ripresa della vita dopo l’eruzione del 1883
Il vulcano indonesiano Krakatoa

Siamo in Indonesia, all’estremità meridionale dello stretto della Sonda, fra le grandi isole di Giava e Sumatra. Già da miglia e miglia di distanza un'altissima colonna di ceneri annuncia la presenza di un vulcano. E quello che stiamo andando a conoscere è uno dei più pericolosi del pianeta: il Krakatoa.

Un nome legato a una delle più catastrofiche eruzioni dell’epoca moderna, quella che si verificò il 27 agosto 1883. Pensate che l’esplosione, il cui boato si udì a quasi 500 chilometri di distanza, sviluppò una energia equivalente a 500 megatoni e con lo tsunami generato causò ben 36 mila vittime. Le ceneri vulcaniche si sparsero sull’intera superficie della Terra, la temperatura media terrestre si abbassò e il livello dell’acqua si alterò dall’epicentro fino al canale della Manica. Sembra anche – e questo sarebbe un effetto “artistico” del Krakatoa – che il cielo rosso sangue del famoso quadro L’urlo sia stato ispirato a Munch dalla vista di un tramonto spettacolare dovuto alle particelle di cenere emesse nell’aria, causa anche dell’aspetto bluastro della Luna, per anni.

Altra paurosa eruzione fu quella che, nell’agosto del 1930, vide emergere dal mare, accanto all’isola maggiore, l’Anak Krakatau (in indonesiano: “Figlio del Krakatoa”): della stessa indole poco raccomandabile dell’isola madre, il cui cono vulcanico, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, cresce ad un ritmo medio di 13 centimetri alla settimana, secondo stime effettuate negli anni scorsi l’Anak Krakatau cresce di circa sette metri l’anno. Insomma, ammiriamo pure il Krakatoa che svetta su un cuscino di foreste, il Krakatoa che ti sa organizzare fantastici spettacoli notturni con i suoi zampilli di fuoco, ma… alla larga!  Anche perché una futura tremenda esplosione, prevista per non si sa quando, pare avrà effetti identici, se non maggiori, di quella del 1883.

Alla larga? Andatelo a dire agli scienziati, ai vulcanologi, per i quali questi fenomeni costituiscono una manna dal cielo! Così fu, quel mattino del maggio 1884, per il biologo belga Edmond Cotteau allorché sbarcò con altri scienziati su ciò che restava dell’isola Krakatoa, in buona parte polverizzata dalla tremenda esplosione di sei mesi prima. Accostarsi a quei luoghi di morte era estremamente rischioso. Fra l’altro dalle pareti bruciacchiate del vulcano continuavano a rotolare macigni d’ogni dimensione. Ma Cotteau era uno scienziato e, si sa, l’amore per la conoscenza riesce talvolta a far dimenticare le più elementari considerazioni di prudenza.

Aveva poche ore a disposizione prima di fare ritorno alla base, e voleva sfruttarle bene, esplorando il più accuratamente possibile quel superstite lembo di terra vulcanica. Nulla, nessun segno di vita: tutto era ammassi di lava basaltica solidificata senza un filo d’erba, com’era prevedibile.

Ma giunto in quella che oggi si chiama baia di Handl, ad un tratto notò qualcosa di insolito che solo lo sguardo di un esperto come lui poteva scorgere. Incredibile ma vero: tra due sassi su una lingua di terra arida e deserta un ragnetto stava tessendo la sua tela come se nulla fosse. Quale insetto sperava di acchiappare per poi papparselo, dal momento che lì era assolutamente assente ogni altro segno di vita?

Quella minuscola creatura – pensò commosso Cotteau – era la prova che la vita era più forte di ogni evento apportatore di morte, e che essa poteva riprendere anche su quell’isola desolata. Ma come era arrivato fin lì il quasi microscopico ragnetto?

Era andata così. Per spostarsi, l’ingegnoso insetto si era servito nientemeno che del vento, reggendosi ad una specie di paracadute che lui stesso aveva tessuto dal proprio addome con i fili usati solitamente per la ragnatela. Un sistema, questo, usato dai ragni della sua specie per spostarsi da un’isola all’altra in cerca di zone più fornite di cibo: ecco il probabile motivo per il quale attraversano gli oceani (a meno che non pensiamo che lo facciano per spirito di avventura!).

Fatto sta che il ragnetto pioniere era stato depositato proprio dai venti sul distrutto Krakatoa. Ed ora aspettava fiducioso (e diciamo pure con un discreto appetito) che qualche piccolo insetto vagabondo finisse nella rete appena allestita.

Per tranquillizzare il lettore sulla sua sorte, dirò che di lì a poco tanta pazienza sarebbe stata premiata. Non per niente, malgrado le apparenze, la natura stessa stava lavorando attivamente per colonizzare con nuovi esemplari vegetali e animali quell’isola passata attraverso il fuoco distruttore.

Quasi contemporaneamente al regnetto, infatti, una noce di cocco trasportata dalle onde era finita su una spiaggia. Lo credereste? Nel giro di pochi giorni, favorita dal clima tropicale, già spuntava da essa un germoglio verde, dopo che una radichetta simile a un dito era riuscita a bucare quella terra nerastra. Pochi mesi ancora e altre piantine, nate da semi trasportati dal vento o depositati da qualche volatile, ingentilivano quelle aspre rocce.

Era, quello, il principio di future lussureggianti foreste che avrebbero ospitato specie diverse di insetti, uccelli, rettili e perfino piccoli mammiferi arrivati non si sa come, forse aggrappati a qualche albero trascinato dalle correnti marine.

E il ragnetto? Breve ma gloriosa, grazie a Cotteau che ce ne ha tramandato il ricordo, fu la vita di quello che a buon diritto viene considerato il primo coraggioso pioniere del Krakatoa.

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