Aldo Moro, il nodo irrisolto della storia italiana

Il rapimento del presidente della Dc, Aldo Moro, e la strage degli uomini della sicurezza che lo accompagnavano quel 16 marzo 1978, rappresenta una data che divide in due la storia del nostro Paese con i suoi misteri irrisolti. A 40 anni dall’inchiesta, iniziata il 17 marzo 1981, sulla loggia massonica P2, assume una particolare importanza l’intervista rilasciata a Città Nuova da Giuseppe Fioroni, presidente della commissione parlamentare di inchiesta promossa e conclusa nella XVII legislatura sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro
Aldo Moro , archivio Famigni

Nonostante i pochi fondi disponibili, la Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, presieduta dal deputato del Pd Giuseppe Fioroni, ha fatto emergere durante la XVII legislatura novità rilevanti su un passaggio epocale nella storia della Repubblica. La relazione finale è stata approvata all’unanimità dai due rami del Parlamento e ciò può far capire la volontà di una ricerca condivisa di verità e giustizia. «È ciò che ha animato un intenso lavoro durato 4 anni» ci dice Fioroni, ex ministro dell’Istruzione nel governo Prodi del 2006 ed espressione della cultura politica dei cattolici democratici.

Come mai permane questa istanza di indagare ancora su un caso che si è consumato nel 1978?
Questa è stata la seconda commissione dedicata in maniera specifica al caso Moro. Ma anche quella cosiddetta Stragi è entrata nel merito.  È evidente che il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro non è solo un avvenimento tragico, relativo a quegli anni, ma è un evento cardine che ha cambiato il corso della storia italiana, ha mutato cioè il futuro dei nostri figli.

Moro aveva compreso che la fase costituente della democrazia italiana, quella cioè costruita dalle grandi forze politiche che avevano scritto la Carta del 1948, era terminata aprendosi ad una “democrazia integrale” che consentisse un rapporto diretto tra eletto ed elettore, grazie ad una fiducia rinnovata su valori di fondo condivisi dalla base popolare senza divisioni tra sinistra, destra e centro.

Quando nel 1978 votava ancora il 90 % degli elettori, egli vedeva con preoccupazione i primi segnali di una riduzione nell’accesso al voto come incrinatura di un rapporto di fiducia nel Paese e aveva ben presente la condizione della Dc che era “obbligata” a governare con i suoi alleati perdendo tuttavia la sua idealità. Un partito cioè frenato dalla gestione del potere che celebrava i suoi congressi come semplici accordi elettorali senza una visione sul futuro del Paese. Dall’altra parte c’era il più grande partito comunista d’Occidente che prendeva milioni di voti ma trasmetteva un senso di alienazione e frustrazione ai suoi elettori, non avendo l’opportunità di trasferire la sua proposta in capacità di governo. Tale stato di “democrazia bloccata” conduceva ad una erosione di consensi verso i gruppi extraparlamentari e lo scivolamento verso i terribili anni di piombo con la nascita delle Brigate Rosse.

Questo è ciò che aveva capito Aldo Moro, la necessità, cioè, della condivisione di almeno un 80 % della popolazione italiana, intorno ai valori di giustizia sociale e libertà. Un periodo di 5 anni dopo il quale si sarebbe aperto un periodo di fisiologica alternanza tra forze politiche destinate a rimanere diverse.

Questa prospettiva rompeva gli equilibri di una certa politica estera…
La sua visione internazionale era sgradita a molti. Nel 1963 tenne un discorso all’Onu che sembra scritto oggi. Diceva che non ci possono essere Paesi desinati a scrivere la storia e altri rassegnati a subirne le scelte, che non si può credere di costruire la pace sulla base della repressione. Pur restando nella fedeltà atlantica di un mondo diviso in due blocchi, sottolineava la necessità della cooperazione internazionale e della multilateralità per il governo di un mondo dove nessuno si senta escluso. In questo senso si comprende la scelta del 1973 di compiere una lunga visita nei Paesi del Medio Oriente e di coniare la formula “L’Europa è il Mediterraneo”. Ed è sempre Moro che promuove la prima conferenza tra l’Europa e i Paesi del Nord Africa perché si rende conto che quel mondo che si affaccia sullo stesso mare è il giardino di casa nostra. Se questo brucia non possiamo credere di restarne indenni. In questo orizzonte si spende a favore della elezione a suffragio universale del parlamento europeo perché sa bene che l’Italia da sola è molto debole e solo un soggetto continentale coeso può agire a favore della pace in un mondo in equilibrio tra da due superpotenze.

E sul fronte interno come ha agito per sostenere questa istanza di democrazia a livello globale?
Moro è quello che realizza l’obbligo di istruzione fino alla terza media perché comprende che la sfida della crescita del nostro Paese passa attraverso l’esigenza di una alfabetizzazione di massa, dell’accesso reale allo studio, tanto da promuovere la famosa trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi” affidandola al maestro Manzi, superando l’obiezione che si trattava di un comunista perché, diceva, «occorre qualcuno che sia davvero capace di insegnare».

Una visione ampia che non poteva non creare dei nemici…
Le sue scelte a livello nazionale e internazionale rompevano degli equilibri precostituiti, rendendolo inviso al blocco occidentale e a quell’Est. È stata la sua apertura che ha facilitato il percorso dell’eurocomunismo di Berlinguer affrancandolo dal controllo sovietico. Moro aveva un pensiero lungo, proprio degli statisti che non ragionano avendo come obiettivo le prossime elezioni.

Eppure una certa pubblicistica capeggiata da Indro Montanelli ha avuto successo nel far passare il politico che veniva dal Sud come portatore di una visione fumosa, contorta e ambigua…
Colui che sa leggere i segni dei tempi ed è portatore di una visione profetica deve scontare lo scherno di chi non vede che l’oggi. Abbattuta, con la morte di Moro, l’architrave di una tale visione di un futuro possibile per il Paese, il sistema non ha retto alla prima scossa sismica e si è arrivati alla fine della cosiddetta prima Repubblica con lo scandalo di tangentopoli

Un passaggio al nuovo si è comunque consumato …
Ma senza una vera rigenerazione.  Basti pensare al nuovo sistema elettorale basato sulla scelta di immagine e non delle idee e dei contenuti. Una vera rottura epocale che ha condotto alla mancata ricerca di una base di valori condivisi, assieme alla lotta tra interessi contrapposti inconciliabili.

Quindi la situazione attuale è la conseguenza di quel fatto traumatico?
È l’effetto diretto di quella uccisione perché non siamo passati attraverso un incontro tra grandi forze popolari capaci di incontrarsi come al tempo dell’assemblea costituente.  Il danno democratico è incalcolabile.

Eppure la linea della fermezza contro ogni trattativa per liberare Moro fu giustificata nel segno di “meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”…
Non entro nella dialettica sulla questione che si giustificò anche dopo lo sterminio di via Fani, ma se la Dc optò per la fermezza, è anche vero che lasciò agire il vaticano e altri canali, come i socialisti, nell’evidente considerazione che le Br non agivano da sole ma erano in collegamento con una vasta rete internazionale terroristica che andava dalla Raf all’Eta e ai servizi dell’ex Ddr, fino alle organizzazioni palestinesi, da sempre in contatto con i nostri servizi di sicurezza. I lavori della commissione che ho presieduto hanno fatto emergere novità che allora sembra siano state trascurate.

L’intelligence italiana ha avuto sempre un rapporto con le organizzazioni palestinesi per prevenire attentati nel nostro Paese, ma mi rendo conto che era difficile istaurare una trattativa con tali attori, ritenuti terroristi da tutti i nostri alleati. Sta di fatto che il 17 febbraio 1978, il colonnello Stefano Giovannone, referente Sismi in Libano, trasmise un messaggio su una imminente attentato in Italia su segnalazione di George Habbash, esponente della galassia palestinese più vicina all’Unione Sovietica.

Sono tante le novità emerse in commissione…
Credo che non possa più essere smentito perlomeno il sostegno logistico di elementi della Raf considerando il numero di testimoni che concordano sulla presenza operativa dei tedeschi

E poi c’è lo strano caso del bar Olivetti..
È sorprendente che in questi ultimi 40 anni non sia emersa la anomalia di questo locale di via Fani, dove non si facevano cornetti e caffè ma si assemblavano armi destinate alla destra eversiva e alla mafia, ai terroristi rossi e alla banda della Magliana. Il titolare riciclava i marchi provenienti dai sequestri della Raf.

Come si spiega tale anomalia?
È un particolare che non è stato indagato a fondo, probabilmente perché allora il traffico di armi, come quello odierno della droga, era una zona grigia che impolverava troppe persone. E’ emerso, tra l’altro, il rapporto tra Olivetti e settori, non si sa se deviati, dei servizi segreti. Chi provò in quegli anni a denunciarlo fu ritenuto un mitomane in base ad una perizia affidata al criminologo Semerari (studioso della Sapienza di Roma ma anello di congiunzione tra destra eversiva e malavita organizzata, ndr).

Tutto ciò non crea un forte disagio anche oggi?
Come commissione non abbiamo prestato il fianco a dietrologie varie, ma abbiamo cercato di mettere in evidenza dei fatti, per fare luce su vicende rimaste ancora non chiarite. D’altra parte è cosa nota che il cosiddetto memoriale Morucci (una ricostruzione dei fatti che prende il nome di uno dei brigatisti, ndr) è opera a più mani, utilizzata per definire le “verità dicibili”, nell’ottica di chiudere la lunga notte degli anni di piombo. Ad uccidere Moro sono state le Br ma è innegabile, e questo pesa come un macigno, che ci sia stata superficialità, sciatteria e vera e propria omissione da parte di chi poteva evitare l’esito tragico di quella vicenda. Anche da parte di servizi segreti stranieri. Una conferma delle legittime domande e inquietudini che toccano questa vicenda riguarda il caso del palazzo di via Massimi di proprietà dello Ior, rifugio sicuro per il terrorista Gallinari, luogo dello scambio delle macchine del sequestro, ma anche sede coperta di servizi segreti italiani e libici. Possibile che nessuno si sia mai accorto di nulla?

Lo stesso Gallinari ha scritto che i terroristi fecero prove per il sequestro in una sede provvisoria nelle campagne di Velletri….
La perizia della polizia scientifica ha messo in evidenza che chi ha agito quel giorno sapeva sparare colpendo, in movimento, con precisione chi era vicino a Moro.

Esisteva comunque una vasta area di sostegno al terrorismo rosso se, come sappiamo, anche durante i giorni del calvario di Moro si tenevano assemblee nelle università dove era noto a molti chi parlava a nome delle Br
Era il periodo della formula “né con lo stato né con le Br”. In Italia abbiamo mosso una pietra tombale su quegli anni non volendo più indagare su una vasta area di contiguità e sostegno al brigatismo. In Italia c’è ancora chi ha paura che si riscoprano le carte del passato. Oggi è molto difficile trovare le tracce di una vicenda del 1978 ma il senso di una commissione parlamentare d’inchiesta, che ha gettato una nuova luce sulla storia intera, è servita anche per poter superare la tentazione di dire che è tutto chiaro e risolto.

Un punto di arrivo o di nuovo inizio?
Mi auguro che le procure di competenza (Roma, Genova e Reggio Calabria) abbiano motivi per riaprire e continuare le indagini

E sul senso dell’impegno politico dei cattolici incarnato da Moro?
Ho sempre presente ciò che disse a Bari ai giovani della Dc: “noi abbiamo il dovere morale di fare politica perché ci sono alcune cose che altri non potranno compiere” e io penso in modo particolare al rispetto della dignità umana. La scelta di estraniarsi e ritirarsi sull’Aventino è sempre sbagliata.

 

 

 

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