Alcune riflessioni sulla leadership etica

Intervista a Paolo Giusta, funzionario europeo dal 1994 (senior auditor e formatore presso la Corte dei conti europea), professore di Leadership etica all'Istituto Universitario Sophia.
Paolo Giusta

D. Prof. Giusta, lei è docente, presso l’Istituto Universitario Sophia, di una materia chiamata “Leadership etica”: ci può spiegare di che cosa si tratta e se questa idea ha a che fare con la sua professione di funzionario dell’Unione Europea?

 

R. Si è leader quando si esercita influenza su altri. Questa influenza può essere positiva o negativa, a volte nefasta (basti pensare alla differenza tra due personaggi del XX secolo che hanno esercitato una grande influenza, Gandhi e Hitler). Si può imparare a diventare leader, leader che proiettano luce attorno a sé piuttosto che ombra. Leader che non solo si comportano bene, ma prendono buone decisioni. Leader etici che creano, attorno a loro, non tanto dei seguaci ma altri leader, che a loro volta operano il bene e prendono buone decisioni. Questa è, a mio avviso, la sostanza della leadership etica.

Come funzionario europeo ho frequentato tanti leader che considero etici. Ho visto anche i limiti di una certa concezione di etica che si ha nelle organizzazioni. Quando ho cominciato a dare corsi di etica nelle istituzioni europee nel 2002, ancora nessuno parlava di etica in quegli ambienti. Nei miei corsi cerco di sfatare tre concezioni diffuse riguardo all’etica, e secondo me limitanti: 1) che l’etica abbia a che vedere solo con le regole e con la repressione (si pensi ad esempio alle recenti norme italiane per prevenire e reprimere la corruzione e l’illegalità nella pubblica amministrazione); 2) che le norme, come per incanto, rendano tutti etici; 3) che l’etica sia un film in bianco e nero, dove tutto è o giusto o sbagliato. In realtà, le norme servono ma ancor più serve una cultura etica nelle organizzazioni, che comincia con il buon esempio che viene dall’alto, e l’etica ha a che vedere con i comportamenti ma anche con le scelte, soprattutto le decisioni difficili, quando si tratta di scegliere tra bene e bene, o scegliere il male minore. Questo è per me il leader etico: uno che sa che quello che fa è più importante di quello che dice; uno che intenzionalmente è un modello etico, con i suoi comportamenti e con le sue decisioni.

 

 

D. Nel suo saggio più recente, Verso la leadership collettiva: il contributo della fraternità, pubblicato nel libro Caino e i suoi fratelli, che viene recensito nel n° 206 di «Nuova Umanità» e che è stato ripreso successivamente, negli Stati Uniti, dalla rivista «Claritas» ­– http://docs.lib.purdue.edu/claritas/vol2/iss1/8/ – lei parla anche di una leadership “partecipata” o, addirittura, “collettiva”; che cosa distingue queste forme dalla tradizionale leadership individuale?

 

R. Spesso pensiamo che la leadership sia legata ad una posizione, che leader siano solo i capi. In realtà tutti siamo leader ad un momento dato, in una data circostanza. Esiste già, di fatto, nelle organizzazioni e nella società, una leadership “diffusa”, che comincia dove una o più persone decidono di influenzare le circostanze invece di sentirsi vittime delle circostanze. La mia tesi è che oggi ci sia bisogno di forme di leadership più partecipate e collettive, di un agire “a corpo”. Grazie anche alle nuove tecnologie, possiamo interagire in modo molto più orizzontale e aperto, dentro ma anche oltre e al di fuori delle tradizionali strutture gerarchiche dove viene in evidenza il leader-capo. Essenziale perché questo agire a corpo sia efficace sono la qualità del contributo personale e la qualità delle interazioni tra le persone, la qualità ad esempio delle conversazioni che avvengono in un gruppo e che permettono, faticosamente, di prendere decisioni collettive. È molto più facile avere un capo che ti dice cosa fare, ma oggi il saggio isolato è impotente di fronte ai complessi problemi che dobbiamo affrontare. È necessario agire insieme, come una cosa sola piuttosto che come una rete (dove succede spesso che un nodo della rete agisca da capo). È necessario, pure, abbandonare una pretesa di controllo dall’alto verso il basso e avere il coraggio di attraversare una certa dose di caos per produrre innovazione, risposte nuove, per approdare ad un nuovo livello di ordine, costruito insieme. Tanti fenomeni sociali cui assistiamo, in apparenza senza leadership, come i movimenti grassroot o la primavera araba, sono in realtà espressioni di una certa leadership collettiva.

 

D. In quale senso una leadership può essere “fraterna”?

 

Un leader è fraterno, a mio parere, quando prende sul serio il fatto che come esseri umani siamo tutti fratelli, cioè tutti sostanzialmente pari nella nostra diversità. E quando agisce per attivare e rendere visibile questa realtà. Vedo il leader fraterno, individualmente, come un facilitatore: uno che apre la strada ad altri, che crea e cura lo spazio dove le persone possano esprimersi e interagire. Un esempio è Beppe Grillo: non ha cercato di diventare Presidente del consiglio, ma di creare le condizioni perché cittadini lontani dalla politica cominciassero a partecipare, a interessarsi ai problemi delle loro comunità, a fare proposte. Poi in realtà ha assunto un forte ruolo di capo, e di un capo con aspetti anche dispostici, ma l’intenzione originaria contiene secondo me elementi di leadership fraterna.

Un leader è fraterno, poi, quando sa – sempre, e non per calcolo tattico – mettere l’interesse generale al di sopra di ogni legittimo interesse particolare. Vedo questo nella scelta di Mario Monti di assumere la funzione di capo del governo nel novembre 2011, quando l’Italia stava praticamente facendo fallimento. Poteva godersi la pensione, ha preso su di sé un’enorme responsabilità. Poi è andata come è andata, ma in quei giorni drammatici abbiamo avuto l’esempio di una leadership fraterna. Lo stesso dicasi di Napolitano, che a 88 anni (non a 60 o 65) poteva godersi una meritata pensione, ed ha accettato di tornare a svolgere un ruolo delicatissimo e pesante, in un momento cruciale per il Paese.

Un aspetto della leadership fraterna è pure il saper farsi da parte. Ne La storia infinita di Michael Ende, Atreiu ha il compito in pratica di salvare il mondo e, per riuscirci, deve superare una serie di prove. In una di queste deve passare attraverso uno specchio magico e, per poterlo fare, deve dimenticare la propria missione, che è nientemeno che salvare il mondo. Sono convinto che ognuno di noi viene al mondo con una parola, unica e irripetibile, da offrire all’umanità. Per poterla davvero offrire, però, deve in qualche modo “dimenticarsi” di questa parola, della propria missione. Così facendo, scopre un aspetto paradossale della leadership: il leader fraterno non è mai al centro; al centro stimola e rende visibile lo scopo condiviso da perseguire. Essere leader-facilitatore significa assumere con dignità il ruolo di apriporta, di canale: aprire la porta alla verità, rimuovere le barriere alla partecipazione. Con un gioco di parole: essere non tanto uno che condivide un significato creato in precedenza, nella sua testa o in un piccolo gruppo, ma che dispone le condizioni per la creazione di un significato condiviso; una persona che rende possibili, cioè, una leadership partecipata e collettiva. In questo modo la parola che ognuno è assume il suo più pieno significato, all’interno di un discorso formato anche da tutte le altre parole.

D. Prof. Giusta, lei è docente, presso l’Istituto Universitario Sophia, di una materia chiamata “Leadership etica”: ci può spiegare di che cosa si tratta e se questa idea ha a che fare con la sua professione di funzionario dell’Unione Europea?

 

R. Si è leader quando si esercita influenza su altri. Questa influenza può essere positiva o negativa, a volte nefasta (basti pensare alla differenza tra due personaggi del XX secolo che hanno esercitato una grande influenza, Gandhi e Hitler). Si può imparare a diventare leader, leader che proiettano luce attorno a sé piuttosto che ombra. Leader che non solo si comportano bene, ma prendono buone decisioni. Leader etici che creano, attorno a loro non tanto dei seguaci ma altri leader, che a loro volta operano il bene e prendono buone decisioni. Questa è, a mio avviso, la sostanza della leadership etica.

Come funzionario europeo ho frequentato tanti leader che considero etici. Ho visto anche i limiti di una certa concezione di etica che si ha nelle organizzazioni. Quando ho cominciato a dare corsi di etica nelle istituzioni europee nel 2002, ancora nessuno parlava di etica in quegli ambienti. Nei miei corsi cerco di sfatare tre concezioni diffuse riguardo all’etica, e secondo me limitanti: 1) che l’etica abbia a che vedere solo con le regole e con la repressione (si pensi ad esempio alle recenti norme italiane per prevenire e reprimere la corruzione e l’illegalità nella pubblica amministrazione); 2) che le norme, come per incanto, rendano tutti etici; 3) che l’etica sia un film in bianco e nero, dove tutto è o giusto o sbagliato. In realtà, le norme servono ma ancor più serve una cultura etica nelle organizzazioni, che comincia con il buon esempio che viene dall’alto, e l’etica ha a che vedere con i comportamenti ma anche con le scelte, soprattutto le decisioni difficili, quando si tratta di scegliere tra bene e bene, o scegliere il male minore. Questo è per me il leader etico: uno che sa che quello che fa è più importante di quello che dice; uno che intenzionalmente è un modello etico, con i suoi comportamenti e con le sue decisioni.

 

 

D. Nel suo saggio più recente, Verso la leadership collettiva: il contributo della fraternità, pubblicato nel libro Caino e i suoi fratelli, che viene recensito nel n° 206 di «Nuova Umanità» e che è stato ripreso successivamente, negli Stati Uniti, dalla rivista «Claritas» – http://docs.lib.purdue.edu/claritas/vol2/iss1/8/ – lei parla anche di una leadership “partecipata” o, addirittura, “collettiva”; che cosa distingue queste forme dalla tradizionale leadership individuale?

 

R. Spesso pensiamo che la leadership sia legata ad una posizione, che leader siano solo i capi. In realtà tutti siamo leader ad un momento dato, in una data circostanza. Esiste già, di fatto, nelle organizzazioni e nella società, una leadership “diffusa”, che comincia dove una o più persone decidono di influenzare le circostanze invece di sentirsi vittime delle circostanze. La mia tesi è che oggi ci sia bisogno di forme di leadership più partecipate e collettive, di un agire “a corpo”. Grazie anche alle nuove tecnologie, possiamo interagire in modo molto più orizzontale e aperto, dentro ma anche oltre e al di fuori delle tradizionali strutture gerarchiche, dove viene in evidenza il leader-capo. Essenziale perché questo agire a corpo sia efficace sono la qualità del contributo personale e la qualità delle interazioni tra le persone, la qualità ad esempio delle conversazioni che avvengono in un gruppo e che permettono, faticosamente, di prendere decisioni collettive. È molto più facile avere un capo che ti dice cosa fare, ma oggi il saggio isolato è impotente di fronte ai complessi problemi che dobbiamo affrontare. È necessario agire insieme, come una cosa sola piuttosto che come una rete (dove succede spesso che un nodo della rete agisca da capo). È necessario, pure, abbandonare una pretesa di controllo dall’alto verso il basso e avere il coraggio di attraversare una certa dose di caos per produrre innovazione, risposte nuove, per approdare ad un nuovo livello di ordine, costruito insieme. Tanti fenomeni sociali cui assistiamo, in apparenza senza leadership, come i movimenti grassroot o la primavera araba, sono in realtà espressioni di una certa leadership collettiva.

 

 

D. In quale senso una leadership può essere “fraterna”?

 

Un leader è fraterno, a mio parere, quando prende sul serio il fatto che come esseri umani siamo tutti fratelli, cioè tutti sostanzialmente pari nella nostra diversità. E quando agisce per attivare e rendere visibile questa realtà. Vedo il leader fraterno, individualmente, come un facilitatore: uno che apre la strada ad altri, che crea e cura lo spazio dove le persone possano esprimersi e interagire. Un esempio è Beppe Grillo: non ha cercato di diventare Presidente del consiglio, ma di creare le condizioni perché cittadini lontani dalla politica cominciassero a partecipare, a interessarsi ai problemi delle loro comunità, a fare proposte. Poi in realtà ha assunto un forte ruolo di capo, e di un capo con aspetti anche dispostici, ma l’intenzione originaria contiene secondo me elementi di leadership fraterna.

Un leader è fraterno, poi, quando sa – sempre, e non per calcolo tattico – mettere l’interesse generale al di sopra di ogni legittimo interesse particolare. Vedo questo nella scelta di Mario Monti di assumere la funzione di capo del governo nel novembre 2011, quando l’Italia stava praticamente facendo fallimento. Poteva godersi la pensione, ha preso su di sé un’enorme responsabilità. Poi è andata come è andata, ma in quei giorni drammatici abbiamo avuto l’esempio di una leadership fraterna. Lo stesso dicasi di Napolitano, che a 88 anni (non a 60 o 65) poteva godersi una meritata pensione, ed ha accettato di tornare a svolgere un ruolo delicatissimo e pesante, in un momento cruciale per il Paese.

Un aspetto della leadership fraterna è pure il saper farsi da parte. Ne La storia infinita di Michael Ende, Atreiu ha il compito in pratica di salvare il mondo e, per riuscirci, deve superare una serie di prove. In una di queste deve passare attraverso uno specchio magico e, per poterlo fare, deve dimenticare la propria missione, che è nientemeno che salvare il mondo. Sono convinto che ognuno di noi viene al mondo con una parola, unica e irripetibile, da offrire all’umanità. Per poterla davvero offrire, però, deve in qualche modo “dimenticarsi” di questa parola, della propria missione. Così facendo, scopre un aspetto paradossale della leadership: il leader fraterno non è mai al centro; al centro stimola e rende visibile lo scopo condiviso da perseguire. Essere leader-facilitatore significa assumere con dignità il ruolo di apriporta, di canale: aprire la porta alla verità, rimuovere le barriere alla partecipazione. Con un gioco di parole: essere non tanto uno che condivide un significato creato in precedenza, nella sua testa o in un piccolo gruppo, ma che dispone le condizioni per la creazione di un significato condiviso; una persona che rende possibili, cioè, una leadership partecipata e collettiva. In questo modo la parola che ognuno è assume il suo più pieno significato, all’interno di un discorso formato anche da tutte le altre parole.

 

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