Alberto Hurtado: “Contento, Signore, contento!”

Alberto Hurtado (1901-1952), gesuita cileno, è un grande testimone di un cristianesimo che si incarna nella società e la rinnova nel segno dell’unità e della fraternità. Una mistica aperta sul sociale, fondata su una radicale scelta di Dio Amore. Una vita intensa, tutta spesa nell’amore a Cristo presente nei fratelli, specialmente i più poveri. 
Alberto Hurtado
Alberto, nato a Viña del Mar (Cile) il 22 gennaio del 1901, a soli quattro anni rimane orfano di padre[1]. La madre, con i suoi due figlioletti, Alberto e Miguel, vende tutte le proprietà di famiglia per far fronte a certe problematiche economiche sorte con la morte del marito, e si trasferisce presso un parente a Santiago. Alberto racconterà che in quegli anni sua mamma andava spesso a visitare i poveri della città e se lo portava con sé.

 

Da ragazzo Alberto studia dai gesuiti, poi completa gli studi di legge presso l’Università Cattolica. Giovane universitario, insieme ad alcuni compagni, si mette a disposizione degli operai che difendono i loro diritti. Finiti gli studi, pur sentendosi attratto al matrimonio e ad un impegno laicale, insieme con un suo amico, Manuel Larraín, si mette alla ricerca della volontà di Dio. Presto sente che la sua strada è quella della Compagnia di Gesù. Il suo amico, invece, entra in seminario e diverrà un grande vescovo.

 

Una vita completa

 

Nel 1923 dal noviziato Alberto scrive al suo amico: “Caro Manuel, finalmente sono gesuita, mi sento così felice e contento che non si può esserlo di più su questa terra, inondato di gioia e non mi stanco di ringraziare Nostro Signore per avermi condotto a questo vero paradiso, dove uno può dedicarsi a Lui 24 ore al giorno”. Completerà la sua formazione in Argentina, Spagna e Belgio.

 

Nel 1933 è ordinato presbitero e, mentre si specializza in scienze dell’educazione a Lovanio, collabora attivamente alla fondazione della Facoltà di Teologia nell’Università Cattolica del Cile. Ebbe, infatti, sempre viva la coscienza del valore dell’impegno culturale cristiano per la trasformazione della società. Un aspetto che curerà durante la sua vita con la pubblicazione di libri, articoli e fondando la rivista Mensaje.

 

Tornato in patria, nel 1936, si dedica al lavoro accademico, alla pastorale universitaria e all’Azione Cattolica, divenendone nel 1942 l’assistente nazionale. A causa di certi sospetti e accuse infondate, sarà costretto a rinunciare all’incarico. Poco prima di questa rinuncia, nell’ottobre del 1944, in una notte fredda e piovosa, gli si avvicina “un povero uomo ammalato, tremante, in maniche di camicia, che non sapeva dove trovar riparo”. Questo incontro lo commuove profondamente e pochi giorni dopo durante un ritiro afferma: “Cristo gira per le nostre strade nella persona di tanti poveri sofferenti, ammalati, sloggiati dalle loro misere case… Cristo è senza casa! Non vogliamo offrirgliela noi?… Ciò che avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo fate a me”.

 

Inizia così un’opera sociale che lo porterà a inaugurare, nel maggio del 1945, l’Hogar de Cristo (Focolare di Cristo) dove accoglie ragazzi di strada e poveri abbandonati della città di Santiago. Gli ultimi anni della sua vita (solo sette) sono intensissimi e li spende tutti per questa opera caritativa che oggi è la più varia ed estesa della Chiesa cilena. Nel 1947 incontra il Papa per presentargli l’Hogar de Cristo e per ricevere la sua benedizione. Nel 1948 fonda l’Associazione Sindacale Cilena (ASICH) e nel 1951 la rivista “Mensaje”.

 

Quando scopre di avere una grave malattia, che determinerà la conclusione della sua vita terrena, afferma: “Come non essere contento? Come non essere grato a Dio? Invece di una morte violenta mi manda una lunga malattia per potermi preparare; non mi dà dolori, mi da il piacere di vedere tanti amici, di vederli tutti. Veramente Dio è stato per me un padre affettuoso, il migliore dei padri”. Il 18 agosto del 1952 Alberto parte per il paradiso, a cui si sentiva diretto velocemente come uno “sparo”. Il 16 ottobre del 1994 è beatificato da Giovanni Paolo II e il 23 ottobre del 2005 è canonizzato da Benedetto XVI. Affacciamoci un po’ all’interno della sua anima, attraverso alcuni stralci delle note personali che ci ha lasciato[2].

 

Fraternità universale

 

Alberto si sente chiamato a vivere la fraternità universale. Annota nel 1947: “Chi amare? Tutti i miei fratelli di umanità. Soffrire con le loro sconfitte, con le loro miserie, con l’oppressione di cui sono vittime. Gioire con le loro gioie. Iniziare a riportare nel mio spirito tutti coloro che ho incontrato nel mio cammino… Tutti quelli della mia città, della mia nazione, quelli che ho incontrato in Europa, in America… Tutti quelli del mondo: sono miei fratelli. Rinchiuderli nel mio cuore, tutti insieme… Essere pienamente cosciente del mio tesoro, e con una offerta vigorosa e generosa, offrirli a Dio. Fare in Cristo l’unità dei miei amori”.

 

Sente poi che tale sentimento si concretizza nell’amore verso i poveri: “Amare il bene che si trova in loro: la loro semplicità, rudezza, audacia” e “amarli fino a non sopportare più le loro disgrazie”.

Il loro dolore deve farmi male: la mancanza di igiene delle loro case, la loro alimentazione insufficiente, la mancanza di educazione dei loro figli, la tragedia delle loro figlie”.

Tutto ciò non è che la traduzione della parola amore. Li ho messi nel mio cuore affinché vivano come uomini nella luce, e la luce è Cristo”.

 

Cristo, infatti, è colui che offre una risposta “alle loro domande più angustianti. Perché vivono? A quale destino sono chiamati”.

Perciò “amarli appassionatamente in Cristo… affinché incontrino Cristo”.

Essi risponderanno?… Dio vuole soprattutto il mio sforzo, e nulla si perde di ciò che si fa per amore”.

 

Scelta di Dio

 

In una riflessione, pubblicata postuma per volontà di Hurtado, egli parla della scelta di Dio come la risposta alla sfida del nostro tempo che è quella “di una società dalla quale Dio è assente”. È quasi un testamento: un invito rivolto a tutti di cercare di vivere in modo collettivo tale scelta: “Ci sono gruppi scelti che cercano Dio con tutta la loro anima, e per i quali fare la volontà di Dio è il desiderio supremo della loro vita. E quando lo hanno trovato, la loro vita riposa come su di una roccia inamovibile; il loro spirito riposa nella paternità divina, come il bambino nelle braccia della madre (cf. Sal 130). Quando si è trovato Dio, lo spirito comprende che l’unica cosa grande che esiste è Lui. Di fronte a Dio, tutto svanisce: ciò che non tocca Dio è indifferente…

A chi trova Dio succede lo stesso che a colui che incontra il primo amore: corre, vola, si sente trasportato; tutti i suoi dubbi si trovano in superficie, nella profondità del suo essere regna la pace…

Nell’anima di questo rimpatriato c’è dolore e felicità allo stesso tempo. Dio è insieme la sua pace e la sua inquietudine. In Lui riposa, ma non può rimanere immobile un momento. Deve riposare camminando, deve trovare riparo nell’inquietudine. Ogni giorno Dio si alza dinnanzi a lui come una chiamata, un dovere, come una felicità prossima non raggiunta”.

 

Unità, fraternità, amore

 

In un convegno di cattolici cileni, svolto nel 1944 (durante la seconda guerra mondiale), presenta la fede cristiana in Dio Amore (e non le ideologie) come la risposta al dramma dell’umanità: “Tre parole sembrano scuotere il mondo contemporaneo e sono alla base di tutti i sistemi che si offrono come soluzione ai mali della nostra epoca: collettività, solidarietà, giustizia sociale. La nostra santa madre Chiesa non disprezza queste parole, ma al contrario, le supera con una ricchezza infinitamente maggiore e con un contenuto immensamente più rivoluzionario e elevandosi su di esse parla di: unità, fraternità, amore. Queste tre parole sono la sintesi di tutto l’insegnamento della Chiesa, quello di sempre, ma che è specialmente rinnovato ai nostri giorni…

In questi momenti, fratelli, la nostra prima missione deve essere quella di convincerci a fondo che Dio ci ama…

Questo grido semplice, ma che è un messaggio di speranza, non deve raggelarsi mai sulle nostra labbra: Dio ci ama, siamo suoi figli…

Siamo suoi figli! Oh voi cinquanta milioni di uomini che vagate adesso fuori della vostra Patria, cacciati dalle vostre case dall’odio della guerra! Dio vi ama! Abbiate fede! Dio vi ama! Anche Gesù ha voluto conoscere il vostro dolore ed è dovuto fuggire fuori della sua Patria e mangiare il pane dell’esilio!…

E se Dio ci ama, come non amarlo? E se lo amiamo, osserviamo il suo grande comandamento, il suo comandamento per eccellenza: Vi do un comandamento nuovo… (Gv 13, 34-35).

In ogni uomo, per quanto povero sia, vediamo l’immagine di Cristo e trattiamolo con spirito di giustizia e di amore! Innalzando i nostri occhi e incontrandoci con quelli di Maria, nostra Madre, ella ci mostrerà tanti figli suoi, prediletti dal suo cuore, che soffrono l’ignoranza più totale e assoluta; ci farà conoscere le loro condizioni di vita nelle quali è impossibile la pratica della virtù, e ci dirà: figli, se mi amate davvero come Madre, fate quanto vi è possibile per questi miei figli, quelli che più soffrono, che perciò sono quelli più amati dal mio Cuore…

Il frutto di questo convegno sia un incendiarsi della nostra anima nel desiderio di amare, di amare con le opere, e che questa notte al ritornare alle nostre case ci domandiamo: che ho fatto io per il mio prossimo? Che cosa sto facendo per lui? Che cosa mi chiede Cristo che faccia per lui?…

Il cristianesimo si riassume per intero nella parola ‘amore’: è un desiderio ardente di felicità per i nostri fratelli, non solo della felicità eterna del cielo, ma anche di tutto ciò che possa rendere migliore e più felice questa vita, che dev’essere degna di un figlio di Dio”.

 

Riempire la nostra vita con gli altri

 

Negli appunti di una conferenza del 1946 troviamo la sua convinzione che Dio avrebbe suscitato, per il nostro tempo, “spiriti nuovi” per un nuovo ordine sociale cristiano: “Il miglior modo di riempire la vita è quello di riempirla di amore, e nel fare così non facciamo altro se non compiere il precetto del Maestro…

I primi cristiani si domandavano: Come si salva un uomo? Amandolo, soffrendo con lui, facendosi uno con lui, nel dolore, nella sua propria sofferenza. Non con discorsi… ma con la evidente dimostrazione dell’amore. La Chiesa ha bisogno di testimoni. È per questo che credo che per i tempi difficili che vengono, Dio nella sua immensa misericordia susciterà spiriti nuovi. Non mi meraviglierei di vedere una nuova congregazione religiosa vestita con le tute, con il voto di lavorare nelle fabbriche e di vivere tra i poveri per salvare il mondo…

Si parla molto, giustamente, nei nostri giorni di un ordine sociale cristiano. Un ordine che suppone una legislazione basata sul bene comune, sulla giustizia sociale, ma tale ordine sarà possibile solamente se noi cristiani ci riempiamo del desiderio di amore che si tradurrà in ‘dare’. Meno parole e più opere. Il mondo moderno è anti intellettualista: crede in ciò che vede, nei fatti. Quando i poveri vedono, toccano il loro dolore e guardano a noi cristiani, cosa hanno diritto di chiederci, a noi che crediamo che Cristo vive in ogni povero? Potranno accettare la nostra fede se ci vedono mantenere tutte le nostre comodità e odiare il comunismo per ciò che vuole toglierci più che per ciò che esso ha di ateo? Quale deve essere il nostro atteggiamento? Il senso sociale! Servire, dare, amare. Riempire la mia vita con gli altri”.

 

Camminare al passo di Dio

 

Nella sua intensa attività Alberto non ha perso mai di vista che la sorgente di tutto era la sua costante unione con Dio. Così scrive in una riflessione personale dell’anno 1947: “Il grande apostolo non è l’attivista, ma colui che mantiene in ogni momento la sua vita sotto l’impulso divino. Ognuna delle nostre azioni ha un momento divino, una durata divina, una intensità divina, tappe divine, un termine divino. Dio inizia, Dio accompagna, Dio termina. La nostra opera, quando è perfetta, è insieme tutta sua e tutta mia. Se è imperfetta è perché noi abbiamo messo le nostre deficienze, è perché non abbiamo mantenuto il contatto con Dio durante tutta la durata dell’opera, è perché abbiamo camminato più in fretta o più piano di Dio.

La nostra attività non è pienamente feconda, se non nella perfetta sottomissione al ritmo divino, in una sincronizzazione totale della mia volontà con quella di Dio”. Perciò “dopo l’azione bisogna ritornare continuamente alla orazione, per incontrare sé stessi e incontrare Dio, per rendersi conto, senza passione, se davvero camminiamo nel cammino divino… Questa vita di orazione deve condurre l’anima a darsi in modo naturale a Dio, al dono completo di sé stessa”.

 

Non vivevo abbastanza per Lui… adesso sì!

 

Negli stessi giorni, in un’altra riflessione autobiografica, scritta quasi fosse la confessione di un suo amico (“uno di quegli apostoli ardenti, sempre allegro nonostante le sue fatiche e i suoi insuccessi”) confida: “Giungono pure le ore oscure… allora, come in tutti i momenti difficili, corro a Dio, gli dono tutto il mio essere e la mia volontà alla sua provvidenza di Padre, nonostante non abbia le forze neppure per parlargli. Ah, e come ho capito la sua bontà anche in questi momenti! Nel mio lavoro di ogni giorno, era Lui che cercavo, però mi sembra che, sebbene la mia vita fosse a Lui donata, io non vivevo abbastanza per Lui… adesso sì… nei miei giorni di sofferenza, io non ho altro che Lui davanti ai miei occhi, Lui solo, nel mio sfinimento e nella mia impotenza. Nuovi dolori mi attendono nelle ore della mia impotenza.

Le opere per le quali mi sono totalmente speso sono gravemente minacciate. I miei collaboratori, pure loro sono esausti a forza di lavorare. Poi le incomprensioni dei più vicini, l’abbandono o lo scoraggiamento degli amici, la mancanza di fiducia della gente, la vittoria dei nemici. La situazione è come disperata. Il materialismo trionfa, tutti i nostri progetti di lavoro per Cristo giacciono a terra. Ci saremo ingannati?…

Circondato da tenebre, fuggo in modo più totale verso la luce. In Dio mi sento pieno di una speranza quasi infinita. Le mie preoccupazioni si dissipano. Gliele abbandono. Io mi abbandono tutto intero nelle sue mani. Sono suo e Lui ha cura di tutto e di me stesso… Dio la roccia immobile, contro la quale si infrangono invano tutte le onde”.

Hurtado amava affermare che “la Chiesa e le famiglie cristiane debbono essere centri di gioia, il cristiano sempre allegro. Le giaculatorie di fondo dell’anima devono essere: ‘Contento, Signore, contento!’. E per esserlo dire a Dio sempre: ‘Sì, Padre!’. Cristo è la fonte della nostra gioia. Nella misura in cui viviamo in Lui vivremo felici”. Ed è questa la scia di luce che egli ha lasciato dietro di sé.

 



[1] Per una presentazione sintetica della vita, cf. introduzione del libro di S. Fernández, Un disparo a la eternidad. Retiros espirituales predicados por el Padre Alberto Hurtado, S.J., Universidad Católica de Chile, Santiago 2002.

[2] Seguiamo una selezione fatta da S. Fernández, Un fuego que enciende otros fuegos. Páginas escogidas de san Alberto Hurtado, Santiago 200916.

 

 

 

 

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