Al Tempio d’oro

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Appena arrivato al Trinity College di Jallandhar, nel cuore del Punjab indiano, chiedo di Pirthipal Singh. Ci accompagnano in una grande sala. Mi colpisce un sikh sulla sessantina, sereno e maestoso allo stesso tempo, vestito di bianco candido con un turbante blu scuro e una grande spada al fianco. Saprò dopo che è la massima autorità spirituale della religione sikh. Il suo nome è Gyani Joghinder Singh. Siede al centro di una scena multicolore: turbanti che dipingono l’ambiente di rosso, arancione, nero e giallo. Pirthipal si dirige sicuro verso di me. Ci scambiamo un calorosissimo abbraccio: è come se ci fossimo conosciuti da anni. Pirthipal era ad Assisi in gennaio, a rappresentare la loro religione, insieme a Gyani Joghinder Singh ed altri sikh provenienti da Birmingham, alla preghiera per la pace indetta dal papa. Nei giorni successivi hanno, fra l’altro, avuto un caloroso incontro con Chiara Lubich. Ciò ha fatto nascere un profondo rapporto di stima ed un reciproco desiderio di conoscersi più a fondo, per poter lavorare insieme per la pace. Con Pirthipal ed il capo supremo ci avviamo verso l’immenso pandal (tendone usato per le grandi feste nell’India del Nord) dove si assiepano, seduti per terra 75 mila cristiani della zona, che si sono riuniti per salutare i 160 vescovi cattolici in riunione plenaria della Conferenza episcopale indiana. La funzione inizia con una commovente preghiera delle varie religioni rappresentate per la pace. Al termine del servizio, eccoci in jeep sulla strada per Amritsar, la città santa della religione sikh. Una gazzella della polizia locale, armata di tutto punto, ci fa strada e viaggiamo a velocità sostenuta su un’arteria con traffico intenso e caotico, movimentato da camion dell’esercito (siamo ad una ventina di chilometri dal confine con il Pakistan e la situazione è ancora di emergenza), da utilitarie, da carri trainati da animali vari, da biciclette e pure da qualche Mercedes. Davanti a noi viaggia l’ammiraglia con il capo supremo e alcuni alti rappresentanti della comunità. Alle porte di Amritsar ci si ferma. Dopo un veloce confabulare, sua altezza Gyani Joghinder Singh sale sulla nostra jeep. Fa effetto. Ma anche questo, lo imparerò in questi due giorni, è il sikhismo: uguaglianza perfetta fra tutti, nessuna divisione, nessuna distinzione in caste o classi sociali. A conferma di questo un’impressione: nel Punjub non si vedono mendicanti. Arriviamo al Tempio d’oro, il luogo sacro per eccellenza, residenza delle due alte autorità che ci accompagnano. È qui che passerò la notte, loro ospite. Saliamo in fretta gli scalini di una delle ali più antiche. Tutto è molto dimesso e così pure la residenza delle somme autorità di questa religione. Arriviamo su un balconcino con un parapetto traforato. Lì, davanti agli occhi, una scena improvvisa e inattesa: il Tempio d’oro! Trattengo il fiato. Quante volte di fronte a una sua fotografia avevo invidiato chi aveva potuto vederlo da vicino. Il sole al tramonto lo dipinge di fuoco sullo sfondo immacolato del marmo e dei palazzi circostanti. Sembra galleggiare soavemente sull’acqua della piscina dove è stato costruito quattro secoli fa. Attorno, decine di sikh, uomini, donne, bambini, anziani, ricchi e poveri camminano in assoluto silenzio a passo spedito per poi infilarsi nel camminatoio che conduce al tempio. Nell’aria già resa sacra da questa scena e dalle luci che ora si accendono, si diffondono le parole del Granth Sahib (il libro sacro della religione), cantate con un ritmo soave che porta a pensare immediatamente alla dimensione più spirituale dell’uomo. In cuore mi rivolgo a Dio, padre di tutti gli uomini, e lo ringra- zio per una tale bellezza. Sembra quasi di sentirlo presente. Con Pirthipal viene spontaneo parlare di Assisi, dell’esperienza di unità vissuta con il papa e con leader di ogni religione. Ricorda con commozione l’incontro con Chiara Lubich e soprattutto vuole sapere che cosa sia esattamente il Movimento dei focolari. Accenno a Dio amore, come scoperta decisiva della nostra vita. Si illumina e mi confida che anche i sikh pensano a Dio nello stesso modo. Quasi si commuove quando parliamo della presenza di Dio in ogni uomo e quindi del nostro sogno di un mondo unito. “È per questo che siamo nati noi sikh”, mi dice. Poi conclude con una citazione del loro ultimo padre fondatore, Guru Gobind Singh: “Vi dico una verità per ogni uomo: solo colui che ama ha trovato Dio”. Sono ormai le 10 e mezzo di sera, ma la giornata non è finita. Improvvisamente il canto si spegne. Ci affacciamo al balconcino. Il Granth Sahib è trasportato per la notte fuori del Tempio d’oro. La processione, di grande solennità, tradisce anche una inattesa semplicità. Chi trasporta con grazia e timore il palanchino, mi dicono, sono cinque laici, che si trovavano nel tempio in quel momento. Altri all’interno stanno piegando con gesti misurati ma altrettanto sacri le lenzuola che coprivano il sacro testo. Sul camminatoio troviamo una ventina di uomini e donne che spazzano, lavano e spolverano. La mattina porta altre sorprese: visitiamo due immensi saloni dove un centinaio di persone sedute su due file stanno mangiando. È il langaar, la cucina comune, che assicura pasti gratuiti a una media di 10 mila pellegrini al giorno. È un’iniziativa voluta da Guru Nanak stesso per abolire tutte le differenze di caste che, fondate sul concetto del puro ed impuro, impediscono a persone di caste diverse di mangiare insieme per evitare la contaminazione. Visitiamo ancora vari angoli dell’immensa piscina. Col capo coperto ed a piedi nudi sul marmo bianco, camminiamo con famiglie di sikh attorno all’acqua. Ci fermiamo in vari punti e Mohinder, collaboratore di Pirthipal, ci racconta di vari episodi avvenuti in quel preciso luogo. Mi colpisce quanto ci dice di un giovane sikh: “Durante la persecuzione degli imperatori Moghul, il giovane decise di combattere per la sua religione e soprattutto per salvare il tempio. Negli scontri fu decapitato proprio a due passi da esso, ma riuscì a mettersi la testa sulla mano per arrivare a morire nella piscina”. Ma è ancora più sorprendente quanto Mohinder mi racconta subito dopo: “Nel 1984 l’esercito indiano entrò nel tempio per scovare i terroristi che vi si erano asserragliati. Un carro armato riuscì ad entrare nella piscina. Fu una ferita inguaribile per tutti i fedeli della nostra religione. Ma, arrivato davanti al luogo dove era morto quel giovane sikh, inspiegabilmente il carro armato si fermò. Non ci fu verso di farlo andare avanti o indietro. Rimase lì inservibile”. che viaggiano sullo stesso vagone. Per la prima volta mi sembra di conoscerli, di sentire che sono tutti fratelli. Questi giorni al Tempio d’oro mi hanno rinnovato una certezza: le religioni sono tante e diverse, ma il Padre è lo stesso per tutti. Tante coalizioni per la pace Bhai Sahib Bhai Mohinder Singh. È il leader spirituale della diffusissima colonia sikh in Europa. Vive a Birmingham, dove dirige il Guru Nanak Nishkam Sewak Jatha, il più grande tempio sikh del Vecchio continente. Ha partecipato al convegno interreligioso di Assisi, dopo il quale lo abbiamo intervistato. È amico dei Focolari in Inghilterra, dove ha invitato Chiara Lubich, che ha accettato l’invito. È tra i leader religiosi sikh più impegnati nel dialogo interreligioso. Come il sikhismo contribuisce alla pace? “In campo religioso non ci devono essere ipocrisie: se sei musulmano devi essere un buon musulmano; se sei un cristiano, devi essere un buon cristiano; se sei indù devi essere un buon indù. Ma siamo tutti figli di Dio, senza alcun dubbio. Dio è infinito, e noi dobbiamo contemplare il suo nome: per questo dobbiamo essere capaci di andare verso gli altri, di vivere in comunione con gli altri, anche se hanno un’altra fede. “Per essere sikh, bisogna essere dei “soldati santi”. Sembra la combinazione di due cose opposte e inconciliabili. Ma questo è necessario per raggiungere l’equilibrio. Non bisogna dimenticare che i sikh sono stati perseguitati a lungo, e per questo è necessario avere in sé questi due aspetti, che non vuol dire essere violenti, tutt’altro. Significa che bisogna rimanere sempre svegli per poter rispettare i fedeli di altre religioni e per poter costruire dei ponti”. Cos’è la pace per i sikh? “Le nostre Sante Scritture dicono che se hai la pace in te, sarai capace di avere la pace anche con gli altri. Se invece non hai la pace in te, non sarai capace di trasmettere la pace attorno a te. Per averla, non c’è molto altro da fare che sviluppare la parte spirituale che è in noi, per divenire degli esseri spirituali. Perché solo spirito è capace di far entrare la pace nella tua anima”. Cosa ha lasciato nel suo cuore l’appuntamento di Assisi? “Penso che quello di Assisi sia stato un meraviglioso sforzo collettivo. Dio Padre che è nei cieli ricopre con la sua protezione padri, madri, fratelli, sorelle, e li mette tutti insieme, facendoli uno. Attraversiamo tempi turbolenti, e non possiamo fare altro che chiedere al Padre che è nei cieli di aiutarci, affinché ci faccia capire che la pace è necessaria all’uomo. Giovanni Paolo II ha una straordinaria capacità di sviluppare la parte spirituale che è in noi. Perciò Assisi è stata una benedizione. Siamo oggi più benedetti da Dio che non prima dell’appuntamento. Siamo fragili e malati, ma Dio ci aiuta, e questa è ciò di cui abbiamo veramente bisogno”. Dopo Assisi? “Dobbiamo ora essere concreti, più pratici di quanto non lo fossimo prima. Il messaggio uscito da Assisi è chiaro: dobbiamo creare una quantità di coalizioni, di piccole e grandi alleanze tra fedeli di diverse religioni. Dobbiamo avvolgere tutto – noi stessi e gli altri, le cose e il mondo intero – con la spiritualità, immediatamente, e cercare quello che ci unisce, come figli di Dio. Dobbiamo pregare, dobbiamo cercare di far scendere Dio nelle nostre relazioni, perché Dio è in tutto e in tutti. Dobbiamo pregare per tutti, soprattutto per coloro che non credono nella pace”. Intervista raccolta da Pietro Parmense

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