Aida e il mango

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Per incontrarla, il noto scrittore svedese Henning Mankell si è recato più volte nel suo villaggio natio, alcuni chilometri a nord di Kampala. Non ero andato in Uganda – spiega – perché una ragazza di nome Aida mi facesse vedere la sua pianta di mango, che curava con amore tenendola nascosta sotto delle frasche, affinché i maiali della famiglia non la mangiassero. Vi ero andato per incontrare degli uomini e delle donne che si preparavano alla morte scrivendo piccoli libri per i loro figli. Tra questi Christine, la madre di Aida. Avevo sentito parlare dei Libri della memoria, piccoli quaderni scritti da padri e madri d’Africa per i loro figli, consapevoli che non avrebbero vissuto abbastanza a lungo per vederli crescere. Mi resi immediatamente conto che era qualcosa che dovevo conoscere più a fondo. In realtà, lui non sapeva della sua esistenza, né ricorda esattamente, quando Aida decise di dargli fiducia e confidargli il suo segreto. Questa ragazzina alta e magra – poco più di una bambina – che all’improvviso appariva per poi scomparire in modo altrettanto silenzioso durante le sue conversazioni con la mamma Christine, è diventata per Mankell l’emblema di tanti bambini e ragazzi, come lei nell’attesa che la sua casa sia visitata dalla morte, che lei cerca di esorcizzare prendendosi cura di una pianta di mango. Sapeva di non essere contagiata, ma quando sarebbe arrivato il momento, sarebbe diventata mamma di sé stessa, ed anche degli altri fratelli e cugini, orfani come lei. Christine, sfinita dall’Aids, aveva fatto un grande sforzo per ricevere con dignità quello scrittore europeo, accettando di parlare con uno sconosciuto della sua malattia. Si misero a sedere su due sgabelli all’ombra, dietro lo spazio coperto del cortile. Viveva in due spaziose abitazioni con gli anziani genitori, alcuni fratelli e sorelle ed i loro figli: sedici tra adulti e bambini. Lei era stata un’insegnante, e continuava a lavorare quando ne aveva la forza. Era la sola in quella grande famiglia a disporre di un reddito, anche se molto basso. Disse che le medicine necessarie ad arrestare lo sviluppo dell’Aids costavano esattamente il doppio di quello che guadagnava. Naturalmente – soggiunse con un filo di ironia scuotendo il capo – ci si può chiedere se siano le medicine ad essere troppo costose o se sono io a guadagnare troppo poco. In ogni caso, i soldi non ti salvano lo stesso dalla malattia. Da sette anni Christine sapeva di essere malata. Lo aveva capito quando suo marito aveva iniziato a dimagrire e a deperire. Il giorno dopo la sua morte, lei andò a fare il test dell’Aids. L’esito non la sorprese. Per un anno lo tenne per sé. Poi, iniziò a parlarne a sua madre e a sua sorella che, a sua volta, le confidò di essere anche lei malata. Ad Aida, sua figlia, ne parlò quando la ragazza compì 13 anni. Quando io non ci sarò più – proseguì – lei dovrà assumersi una grande responsabilità. Io cerco di vivere il più a lungo possibile proprio per lei. Christine è come un fiume in piena. Ricorda anche di quando è andata a trovare la sua vecchia amica Gladys, che alla notizia di essere contagiata si era seduta in casa aspettando la morte. Iniziò col parlarle dei loro figli. Loro due ne avevano diciassette di cui prendersi cura. Per questo era importante vivere il più a lungo possibile e non dimenticare che, a dispetto di tutto, c’era sempre posto per un sorriso sul volto. Non era permes- so loro di rimanere sedute aspettando la morte. Prima le storie si tramandavano di generazione in generazione e, in molti casi, questo si fa ancora oggi.Ma chi resterà a raccontare se così tanti anelli della catena di narratori spariscono? Che cosa possono dire i bambini dei loro genitori, se non possono ricordarli perché loro erano troppo piccoli quando loro se ne sono andati? E, d’altra parte, come possono i genitori raccontare chi sono a bambini troppo piccoli per capire? Cosa può raccontare chi non sa scrivere? Quando parlare non è più possibile?. Per tentare una risposta a questi interrogativi, Henning Mankell si è recato più volte in terra d’Africa mettendo a disposizione il suo talento di narratore per condurre la sua personale, battaglia contro l’Aids che sta devastando il continente africano. L’Aids in Africa: una realtà difficilmente immaginabile dall’ angolo di osservazione, del nostro mondo occidentale dove la temuta malattia, se non sconfitta, è senza dubbio circoscritta. In Africa continua a causare ogni anno migliaia di perdite umane. Per capire la proporzione del disastro, ricordiamo solo alcune cifre di questo Olocausto d’Africa che si consuma nel silenzio e nell’indifferenza. Su 40 milioni di malati nel mondo, 25 si trovano in Africa. Su tre milioni di morti ogni anno, 2,2 sono africani. In alcuni paesi si arriva a sfiorare il 40 per cento di adulti infetti. Il virus colpisce più le donne che gli uomini e la differenza più accentuata è nelle aree urbane, dove sono più numerose le famiglie disgregate. Ma anche tra i giovani, forze vive d’Africa, il morbo sta facendo strage: è infatti la principale causa di morte tra i 15 e i 55 anni. Con conseguenze drammatiche non solo in termini sanitari, ma di sviluppo. L’Aids affonda le sue radici nella povertà, e crea a sua volta miseria e sottosviluppo. Il periodico della Caritas italiana, da cui abbiamo tratto queste cifre che parlano da sole, non si limita a denunciare le tante (colpevoli) responsabilità della pandemia. Indica anche gli sforzi – sempre inadeguati, ma guai se non ci fossero – per la prevenzione, per le cure e per dare ali alla speranza con le braccia della solidarietà concreta, che pure non manca. La lotta all’Aids è senza quartiere, ed ha bisogno del contributo di tutti. E quando maestri della parola come Mankell danno voce a chi non ne ha, conviene mettersi in ascolto. Perciò ci piace concludere con alcune sue parole: Ora, due genitori malati stanno scrivendo il Libro della memoria. Sono seduti uno vicino all’altra e si chiedono: chi sei? chi sono? chi siamo? È così che sono nati i Memory Books. Ma ho anche visto libri della memoria non scritti. Dove le pagine sono rimaste in bianco. Non perché le persone non avessero alcun ricordo. O capacità, o volontà di raccontare. Sono la testimonianza dell’angoscia paralizzante di fronte alla malattia, alla sofferenza, alla morte. Alcuni erano conclusi, altri erano rimasti interrotti dalla morte e sarebbero stati per sempre inconclusi. Naturalmente, i più commoventi erano i libri scritti a bambini molto piccoli, spesso ancora lattanti. Tutto quello che c’era – scritto, disegnato, pressato come i fiori e le farfalle -, tutto si riferiva alla vita e alla morte. Letteralmente. IO MUOIO, MA IL RICORDO VIVE È il titolo del libro scritto da Henning Mankell, in seguito al suo viaggio in Uganda. Riporta anche il Memory Book di Christine Aguga, indirizzato a sua figlia Evelyn. La prefazione è di Walter Veltroni, e l’introduzione di Desmond Tutu, Nobel per la pace. L’Autore è nato nei pressi di Stoccolma nel 1948 e vive tra la Svezia e Maputo, in Mozambico. Regista e drammaturgo, ha scritto libri per bambini e romanzi, tra cui la fortunatissima serie poliziesca del commissario Wallander (nove episodi, diventati bestseller della letteratura mondiale). L’autore devolve il ricavato delle vendite del libro, edito in Italia dalla Marsilio, per il progetto Aids di Plan International.

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