Agli iracheni chi ci pensa?

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Bassora, Umm Qasr, Baghdad, Najef, Nassiriyah. Non sono crollati solo i palazzi del regime. È stata interrotta la fornitura di energia, mandato per aria il sistema idrico, danneggiata la rete fognaria. La gente è senza cibo, senza acqua potabile. All’orizzonte colera e tifo minacciano centinaia di migliaia di bambini (come se queste malattie non fossero già la prima causa di mortalità infantile nel paese) e non solo. Che la chiamino preventiva, chirurgica o intelligente, l’unico vero nome è guerra. Ed ha come sinonimi morte e distruzione. Ci si prova sempre ad illudersi che i suoi danni saranno limitati, che i civili non ne verranno colpiti, che solo i veri colpevoli colpevoli ne pagheranno le conseguenze. A dispetto della vantata precisione chirurgica delle nuove potentissime armi, finora niente di tutto questo è successo e dubitiamo che mai possa succedere. Il secondo conflitto del Golfo, di sicuro, non fa eccezione alla regola. Obbligo di assicurare i bisogni primari della popolazione, di facilitare le operazioni di soccorso, di garantire la sicurezza del personale sanitario e l’assistenza medica adeguata. Sono tra le disposizioni della invocata (a proposito del rispetto dei prigionieri americani) Convenzione di Ginevra cui si rifà il diritto umanitario internazionale. Che è in pericolo di vita anch’esso dal momento che le difficoltà di agenzie umanita- rie e ong non sono poche, come fanno esse stesse sapere ripetutamente dal fronte. Senza dimenticare che dal 17 marzo è stato sospeso il programma “Oil for food” varato dall’Onu nel 1996 come misura temporanea per aiutare la popolazione irachena duramente provata dall’embargo. Esso prevede, come si sa, che l’Iraq possa vendere petrolio per acquistare cibo e beni per uso civile. Da tale programma dipende la sopravvivenza di 16 milioni di iracheni. Sopravvivenza dunque fortemente minacciata anche da questa decisione contro cui la proposta di riattivazione, avanzata dallo stesso Kofi Annan, ha incontrato forti ostilità all’interno del Consiglio di sicurezza. Intanto le forze che sempre in queste occasioni si preoccupano della povera gente, lontane da interessi di qualsiasi genere, cercano in tutti i modi di arrivare o di rimanere dove l’inferno scatenato dal conflitto consiglierebbe di allontanarsi. Croce rossa internazionale, Unicef e Acnur (Agenzia Onu per i rifugiati) in primo luogo ma anche Emergency, Medici senza frontiere, Caritas internazionale ed altre agenzie umanitarie combattono la loro battaglia a fianco di milioni di esseri umani altrimenti senza scampo. Mentre aiuti economici vengono stanziati dai governi via via che la situazione peggiora. Nel momento in cui scriviamo si parla ancora di emergenza e non di disastro. Che potrà essere evitato se le armi saranno in grado di tacere definitivamente. Ci piacerebbe poter parlare sul prossimo numero della ricostruzione in corso. E ci rifiutiamo di credere che essa sia considerata un affare economico per alcune grandi imprese americane cui Bush avrebbe “dato l’appalto”. A meno che non si voglia mandare definitivamente in frantumi il Palazzo di vetro. Una ben grave responsabilità se il presidente americano volesse assumersela! Imparziali gli aiuti umanitari Acolloquio con Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. Sono in molti a parlare della ricostruzione dell’Iraq ed è già polemica su chi dovrà gestirla. Ma intanto siamo ancora nella fase dell’emergenza” “Sì in effetti ci sorprende che sia stata bypassata la fase dell’emergenza e si parli già di ricostruzione perché credo che comunque la guerra ha un alto costo umanitario. Ora è vero che fino ad ora non c’è stato un grosso spostamento nei paesi limitrofi ma questo scenario potrebbe cambiare con molta rapidità e comunque all’interno del paese c’è una situazione che si aggrava di ora in ora. La comunità internazionale dovrebbe quindi prima di tutto fare i conti con il costo umanitario del conflitto”. Sembra che la macchina della guerra sia partita molto prima rispetto a quella umanitaria. È così? “A dire il vero, invece, è al contrario. Sono mesi che noi stiamo lavorando in vista di questa possibile guerra che poi è diventata tale, ma per fare questo ci vogliono continue risorse che non arrivano. A dicembre abbiamo chiesto 60 milioni di dollari per avviare tutto un lavoro di preparazione che ci permettesse di essere pronti per 600 mila persone. Non voleva certo essere una previsione del flusso ma almeno un punto di riferimento per poter lavorare. Ad oggi abbiamo aiuti di prima necessità nella regione per 300 mila persone e campi profughi in Giordania, Iran, Siria. Speriamo di non doverli usare ma bisogna essere sempre molto cauti e pronti alla peggiore evenienza. Finora abbiamo ricevuto 26 milioni di dollari”. E come si spiega la mancata risposta della comunità internazionale? “Io mi spiego la lentezza dei finanziamenti con l’ipotesi che i paesi siano a conoscenza di programmi di guerra di breve durata e per questo non si aspettino una grossa emergenza umanitaria. Preferisco leggere quest’atteggiamento in un’ottica di consapevolezza piuttosto che in quella della mancanza di senso di responsabilità”. Si aspettavano migliaia di profughi alle frontiere e invece sembra che l’emergenza, almeno al momento, sia rimasta all’interno del paese. Cosa sta succedendo? “Intanto bisogna dire che la gente ha paura di fuggire sotto le bombe che continuano a cadere anche di giorno. Le persone poi non hanno più mezzi, non hanno più denari neanche per pagare una macchina. Inoltre sembrerebbe che il regime abbia emesso un decreto col quale invita la popolazione a non lasciare le proprie abitazioni, intimando che chi l’avrebbe fatto sarebbe stato trattato da traditore, avrebbe perso la nazionalità e tutti i propri averi”. Quello che si profila è un disastro umanitario. Può ancora essere evitato? “Molto dipende da quanto dura la guerra. Siamo tutti preoccupati, a cominciare dal segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan che ha auspicato un intervento immediato degli aiuti umanitari, ma la catastrofe dipende da quanto questo conflitto si protrarrà. Mi auguro che possa ancora essere scongiurata”. Sembra che gli Stati Uniti non gradiscano la presenza delle agenzie dell’Onu e delle ong e che vogliano essi stessi gestire gli aiuti alla popolazione civile irachena. Il diritto umanitario internazionale rischia di essere un’altra vittima illustre di questa guerra? “Noi non condividiamo questo modo di agire in quanto gli aiuti umanitari debbono essere assicurati da entità civili, agenzie dell’Onu o anche ong che lavorano con l’Onu che garantiscono un trattamento di imparzialità e indipendenza. Dal nostro punto di vista gli aiuti umanitari dovrebbero essere staccati dall’azione militare e affidati a chi questo compito lo svolge con professionalità”. LA CHIESA SI MOBILITA Il paese era già in difficoltà: 1,3 milioni di bambini sotto i 5 anni; percentuale di bambini nati sottopeso: dal 4,5 per cento del 1990 è passata all’attuale 24,7 per cento; un bambino su quattro, cioè, nasce sottopeso; 16 milioni di iracheni dipendevano dal cibo fornito dall’Onu col programma “Oil for food”. La Caritas italiana lancia una raccolta di fondi in favore dei profughi e delle vittime della guerra in Iraq; ha già messo a disposizione 150 mila euro per i primi interventi ed è operativa da subito con quattordici centri nei dintorni di Baghdad, Bassora, Kirkuk e Mosul, nonché otto piccoli ospedali attrezzati. Chi desidera partecipare può inviare il suo contributo alla Caritas Italiana, viale F. Baldelli n. 41 – 00146 Roma c.c.p. /n. 347013, oppure a Città nuova, specificando la causale.

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