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Afghanistan, dopo il terremoto arriva l’inverno

di Daniela Bignone

- Fonte: Città Nuova

Daniela Bignone, autore di Città Nuova

Dopo il terremoto che ha devastato l’Afghanistan orientale, migliaia di vittime e villaggi distrutti restano senza soccorsi adeguati. Restrizioni talebane e isolamento politico aggravano una crisi umanitaria dimenticata.

Donne afghane lavorano in un laboratorio di cucito a Kabul, Afghanistan, 17 settembre 2025. Foto: EPA/SAMIULLAH POPAL via Ansa

Mentre sembra calato il silenzio sul violento terremoto che nella notte fra il 30 agosto e il 1° settembre scorso ha colpito l’Afghanistan orientale, un intero popolo continua a lottare fra le macerie dei suoi villaggi. L’indagine condotta dall’Università delle Nazioni Unite (UNU – centro studi che collega la comunità accademica internazionale con il sistema delle Nazioni Unite) descrive un quadro allarmante: il bilancio delle vittime è salito a 3.500 (e sono calcoli approssimativi anche per la difficoltà a raccogliere notizie attendibili), più di 13.000 costruzioni nel raggio di 50 chilometri sono scomparse o sono state danneggiate, molti villaggi sono distrutti al 90%.

Gli esperti attribuiscono questo significativo numero di vittime ai decenni di conflitto e instabilità e al crescente isolamento diplomatico del Paese dopo la presa del potere da parte dei talebani nel 2021. La guerra, la mancanza di sicurezza e il ritiro degli aiuti internazionali hanno impoverito il Paese. Le persistenti difficoltà economiche e il sottosviluppo hanno costretto milioni di afghani a vivere in case che hanno poche possibilità di resistere ai terremoti. Inefficienza nella gestione della catastrofe e fragile contesto socio-politico sono quindi considerati i principali fattori che hanno contribuito al triste impatto del sisma.

Gli effetti del terremoto sono stati particolarmente gravi per le donne e le ragazze, che devono affrontare rigide restrizioni basate sul genere. Molte sopravvissute non hanno potuto accedere a cure mediche tempestive perché è stato loro impedito di consultare medici uomini senza accompagnatore. I divieti imposti alle operatrici umanitarie hanno fatto sì che spesso gli aiuti umanitari e l’assistenza non riuscissero a raggiungerle.

I quotidiani locali non affrontano il problema, sembrano rimuoverlo. Il Kabul Times di pochi giorni or sono, sotto il titolo Terremoto, riportava il rammarico del mullah Baradar (uno dei capi politici dei talebani e vice primo ministro in carica) per non essere potuto arrivare il primo giorno del disastro a causa di obblighi ufficiali in un’altra regione: «Le sofferenze della popolazione di Kunar sono motivo di grande preoccupazione per la leadership e la visita sarà prioritaria il prima possibile al mio ritorno». E il giornale sottolinea: «Questo riconoscimento è servito a mettere in luce l’aspetto umano della governance, in cui ci si aspetta che i leader non solo gestiscano, ma anche che empatizzino e stiano al fianco dei loro cittadini nei momenti di dolore». Importante, ma tutto qui?

E non è solo il presente a destare preoccupazione, lo scenario che si prospetta è carico di incognite su molti fronti: una società orfana della presenza femminile dove sarebbe più necessaria (l’ambito sanitario ed educativo), una ricostruzione difficile da immaginare senza risorse economiche e in una logistica assolutamente inadeguata, l’impossibilità di trovarsi preparati a eventuali nuove catastrofi.

Il dott. Manoochehr Shirzaei, capo scienziato del Global Environmental Intelligence Lab presso l’UNU-INWEH (laboratorio che applica dati geospaziali e temporali su larga scala per comprendere, prevedere e gestire i sistemi ambientali e il cambiamento globale) sostiene che il sisma del 31 agosto abbia dimostrato come anche terremoti moderati possano causare perdite catastrofiche quando infrastrutture fragili e scarsa preparazione lasciano esposte le comunità: «La nostra analisi evidenzia l’urgente necessità in Afghanistan di investimenti sostenuti in costruzioni più sicure e nella riduzione del rischio di catastrofi. Senza queste misure, i terremoti futuri porteranno quantomeno la stessa devastazione».

E arriva l’inverno. La temperatura delle Provincia di Kunar, terreno accidentato sotto lo sguardo delle montagne dell’Hindu Kush ad una altitudine di quasi 2.000 metri, può scendere a -15°. Freddo da cui non ci si sa e può difende in un Paese che 10 mesi all’anno è sottoposto a temperature torride. Occorrono nuovi e pressanti appelli alla comunità internazionale perché questa grande emergenza umanitaria non sia dimenticata.

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